attualità, politica italiana

"Dopo la Lega", di Pierluigi Castagnetti

La vicenda di Lusi e quella della Lega sono oggettivamente diverse, ma hanno in comune alcuni elementi che vanno affrontati di petto, e subito. Ne indico quattro: la corruzione della classe politica (per fortuna non tutta) figlia di una progressiva corrosione etica, la insostenibile perdurante assenza di un ordinamento che disciplini la vita dei partiti, il grande potere di chi gestisce le risorse dei partiti conseguenza anche del punto precedente e, infine, la eccessiva dotazione di risorse pubbliche a disposizione. Questi sono peraltro i punti di crisi del sistema che – nel momento in cui sono esplosi in termini tanto clamorosi – hanno contribuito ad allontanare ancora di più l’interesse dei cittadini per la politica, per non parlare di un esplicito rifiuto.
Chi pensava infatti che tutto potesse risolversi con la riduzione dei compensi ai parlamentari non coglieva il dato sistemico della crisi in cui si trova la politica. A onor del vero il Pd non è collocabile tra questi. Bersani infatti da tempo parla della necessità di porre mano contestualmente alla riforma elettorale, a quella istituzionale e alla disciplina della vita dei partiti dando attuazione ordinamentale all’art.49 della Costituzione.
Personalmente credo di essere stato, nei tempi recenti, tra i primi (già nella precedente legislatura, oltre che in questa) a presentare una proposta di legge su quest’ultimo tema, a cui altre si sono ispirate, ma il Pd è stato sicuramente il primo partito, in quanto tale, ad assumere un’iniziativa legislativa a prima firma Bersani. La strada è tracciata e il segretario l’ha richiamata in modo chiarissimo nell’intervista al Corriere della Sera domenica scorsa. Oggi stesso probabilmente quelle indicazioni prenderanno corpo con in una nuova proposta stralcio, relativa al solo aspetto della gestione trasparente, certificata e controllata in ultima istanza dalla Corte dei conti, delle risorse pubbliche destinate ai partiti, da parte dei gruppi parlamentari che sostengono il governo Monti. Speriamo (ma non è facile, perché basta l’opposizione di un solo gruppo) che la si possa approvare in sede legislativa in commissione, cioè senza arrivare all’esame dell’aula, per poter guadagnare tempo. È il minimo che si possa fare e lo si deve fare subito.
Gli altri aspetti riguardanti la democrazia interna e la selezione delle candidature seguiranno la via parlamentare ordinaria, considerato peraltro che l’esame delle diverse proposte è già iniziato nella commissione Affari costituzionali.
Ma sono convinto che il tema della forma e della misura del finanziamento pubblico della politica sia destinata nelle prossime settimane ad accendere un dibattito forte e non scevro da toni populistici. La proposta dell’on. Crosetto di prevedere una modalità di finanziamento tipo “5 per mille” che darebbe ai cittadini elettori e contribuenti il potere di decidere in materia, come avviene in altri paesi, merita di essere valutata, non foss’altro perché risolverebbe entrambi gli aspetti, della forma e della misura del finanziamento.
Ma resta drammaticamente aperta la questione di fondo, quella della corruzione interna alla politica, rispetto alla quale si potrebbe convenire sulla constatazione (i cattolici sanno che c’è il peccato originale) che c’è poco da fare. Eppure anche quel poco, sia esso pure poco, va fatto. Formare culturalmente ed eticamente le classi dirigenti. Rimettere in circolazione lo “spirito repubblicano”, cioe del servizio allo stato. Definire codici etici stringenti. Selezionare i candidati valutando biografie e attitudini. Aumentare la vigilanza, come si diceva una volta, anche attraverso controlli e rendicontazioni rigorosi. Ipotizzare forme di re-call (cioe di rinuncia agli incarichi), evitando evidentemente i rischi di linciaggio, dossieraggio o vendetta. Ma, ripeto, la cosa più importante è prevenire degenerazioni del sistema attraverso la formazione e la selezione accurata delle persone.
Questa è la strada per evitare un infarto letale al sistema dei partiti. E anche per rispondere al tormentone che accompagna la crisi della Lega: chi rappresenterà d’ora in poi il Nord? Detto che già oggi il Nord non è rappresentato solo e prevalentemente dalla Lega, è vero che “quel Nord” della Lega non sarà facile recuperare, almeno in tempi brevi. “Quel Nord” per la verità c’era anche prima che arrivasse la Lega.
Il Nord della “questione settentrionale” è riconquistabile da altre forze politiche, a partire dal Pd che ne è ben consapevole. Il Nord invece dell’ostilità a Roma (cioè allo stato) e al Mezzogiorno (cioe a quella parte d’Italia che “non si dà una mossa”), il Nord del “se è così, io non voglio pagare le tasse”, quello delle osterie delle vallate, insomma quello della “pancia”, è invece molto più difficile da riconquistare e, probabilmente, continuerà ad essere appannaggio ancora della Lega più o meno rinnovata, perché è saltato il modello della Dc che per anni ha saputo incassare rabbia e proteste popolari trasformandole, grazie a una sorta di “depuratore politico”, in strategia nazionale, cioè in politica. Eppure questa è la sfida che il Pd dovrà raccogliere, pur sapendo che a breve non ci sarà incasso.
Sabato scorso su Europa Giovanni Cocconi osservava che dopo venti anni di Lega le domande delle regioni settentrionali, a partire dalla Lombardia, sono ancora lì, inevase. Inevase – aggiungerei – proprio perché la illusione di quelle regioni di potere risolvere da sole le questioni pur vere che esse pongono, era ed è sbagliata, trattandosi di questioni che non possono che essere affrontate in un disegno politico nazionale. Non averlo compreso ha comportato non solo il costo della mancata soluzione, ma dell’aggravamento, come la spaventosa penetrazione della criminalità organizzata sta a dimostrare. Ma se una parte della gente del Nord non l’ha compreso, facendosi sedurre dal falso autonomismo della Lega, non è solo colpa sua. Quando l’elettorato sbaglia, normalmente non ha colpa, le colpe sono di chi non è riuscito a offrire un’alternativa.

da Europa Quotidiano 11.04.12

******

“Il fallimento della repubblica dei partiti personali”, di Paolo Soddu

Lusi, Calearo. Uno, «ladro»; l’altro, «persona orrenda». Così sono stati definiti da Francesco Rutelli e Walter Veltroni, i dirigenti politici ai quali si fa risalire la loro scelta. E certo, in tempi diversi, tra i pochi che sono parsi offrire, in tempi diversi, una prospettiva meno asfittica da quella in cui è precipitata l’Italia da ormai quasi venti anni.
Ora si aggiunge il caso, forse ancora più clamoroso, di Francesco Belsito, il tesoriere della Lega, il movimento del sovversivismo parolaio coniugato con l’ego ipertrofico della famiglia Bossi e del Cerchio magico che la attornia.
Bisogna riconoscere che Belsito sembra assai più consonante con chi lo ha scelto: anch’egli, come il leader di riferimento, ha raccontato qualche menzogna riguardo i titoli di studio spacciati nel curriculum, agevolando anche in tal modo la promozione a sottosegretario nell’ultimo indimenticabile governo Berlusconi.
Quel che è interessante in questi casi, non isolati sebbene siano certamente tra quelli che hanno maggiormente impressionato l’opinione pubblica, è il disprezzo rivelato nei riguardi del bene comune. Lusi sarebbe dovuto essere perbene per il solo fatto di provenire dallo scoutismo cattolico. Calearo avrebbe dovuto assurgere a emblema dell’imprenditoria e si è, tra l’altro, rivelato preda di un afflato razzista, intollerabile in qualunque paese civile, ma da noi largamente condiviso, a destra, al centro, a sinistra, dato che si rivolta contro gli omosessuali, un autentico anello flebile nella visione della cittadinanza della società italiana.
Belsito, da buon cortigiano campione nell’ammansire le lusinghe che certi leader attendono come il pane quotidiano, è in pochi anni passato dall’offrirsi come autista dell’ex ministro Biondi a vicepresidente di Fincantieri, cambiando nel frattempo casacca.
Sorge spontanea la domanda: ma come si selezionano, ai vari livelli, le classi dirigenti? Questi casi, insieme ai tanti altri che in questi ultimi due decenni si sono manifestati, non sono forse rivelatori di una deriva narcisistica che, a partire almeno dalla fine degli anni Settanta, ha investito il paese, rischiando seriamente di travolgerlo e di distruggerlo? Non si sceglie, in genere, sulla base della matura capacità di cogliere il merito, la solidità, i valori, ma in virtù di una proiezione che finisce col privilegiare nefandezze.
La cultura del narcisismo ha dilagato in tutto l’Occidente a partire dagli anni Settanta. Ma in Italia, paese nel quale la cultura dei media mostra sovente una inquietante dimenticanza di ogni discorso psicoanalitico, non ha trovato contrasti efficaci, non una forza religiosa, civile, culturale, laica, capace di renderla inoffensiva. E così diviene insopportabilmente condiviso un vittimismo deresponsabilizzante, che rinvia sempre agli altri la coscienza del proprio operare. Non solo per la classi dirigenti politiche, come gli italiani sono usi pensare: ma per il complesso delle classi dirigenti del paese, dal condominio ai corpi intermedi fino ai vertici. Una condizione assai più difficile da estirpare del debito pubblico, della disoccupazione, della rigidità corporativa, ché sono questi solo gli epifenomeni di una infinita maggiore sofferenza.
La crisi di regime, esplosa dopo la caduta del muro di Berlino e la rivelazione di Tangentopoli, lungi dal liberare il paese dalla zavorra e dal prevalere dei modelli cortigiani, li ha ulteriormente rafforzati. Dall’estrema destra all’estrema sinistra. E la classe dirigente emersa dopo Tangentopoli si è rivelata nel complesso assai più fragile, impreparata e inadeguata al ruolo rispetto alla precedente. È una constatazione drammatica, della quale però occorre avere piena coscienza se si intende risalire la china. Anche di qui discende la crisi della politica, che significa difficoltà sempre più inestricabile dello stare insieme della nostra comunità.
La repubblica dei partiti è vissuta per oltre 40 anni, con indubitabili successi e il finale fallimento. La repubblica dei partiti personali non ha raggiunto i 20 anni. Ha sancito il declino dell’Italia, un paese in cui è condivisa, prevalente e largamente praticata l’incapacità di giudizio e, quindi, di scelta. Con grande sollievo dei tanti Lusi, Calearo e Belsito, che ai diversi livelli possono tranquillamente e impunemente prevalere.

da Europa Quotidiano 11.04.12

******

“Ma non è stata una parentesi”, di Roberto Della Seta

La caduta degli dei fondatori della seconda Repubblica – Bossi e Berlusconi – fa piacere a molti, me compreso, ma non bisogna esagerare.
Invece in tanti commenti compiaciuti si legge, nemmeno troppo tra le righe, la soddisfazione per una parentesi che sta per chiudersi. Una parentesi? Berlusconismo e leghismo sono stati fenomeni complessi, e soprattutto il secondo non è detto ancora che sia prossimo alla fine. Il loro successo fu largamente costruito su un discorso pubblico che si poneva, già vent’anni fa, come anti-politica: la politica romana che rubava e affamava il Nord per Bossi che sventolava il cappio in parlamento, la politica politicante per Berlusconi che riuscì, incredibilmente vista la sua storia, ad imporre se stesso come “homo novus” estraneo al potere e dunque alle sue degenerazioni.
Misurata sull’abisso di scandali, familismi, ruberie che sta inghiottendo entrambi, questa cifra anti-politica che fu uno dei grandi motori del decollo della Lega e di Forza Italia appare oggi quasi surreale. Ma altrettanto surreale, a me sembra, è l’idea che chiudendo la “parentesi” – ammesso che sia possibile… –, azzerando questi vent’anni dominati dall’egemonia dei due B., i problemi da cui l’anti-politica nasce saranno avviati a soluzione.
Nessuno dei grandi mali dell’Italia attuale è cominciato con Bossi e Berlusconi. Non i nostri mali economici: basti pensare al debito pubblico, esploso ai livelli attuali negli anni Ottanta e che oggi rappresenta un handicap formidabile di fronte alla crisi e all’urgenza di rilanciare lo sviluppo. Non certamente i nostri mali etici: dalla corruzione all’evasione fiscale, dal lavoro nero all’abusivismo edilizio, dall’intreccio ricorrente tra mafie e politica fino alla truffa del finanziamento pubblico ai partiti cancellato dagli italiani nei referendum del 1993 e reintrodotto “sotto falso nome” qualche mese dopo, l’allergia dell’Italia all’etica pubblica ha una storia molto più antica di questi vent’anni. È la storia di classi dirigenti abituatesi per decenni a coltivare più le appartenenze ideologiche, di classe, di partito, di religione, e poi cadute le ideologie del Novecento le convenienze personali e di gruppo o i peggiori localismi, che non l’orizzonte e l’interesse nazionali.
Berlusconismo e leghismo, basati come sono su visioni in prevalenza “antagoniste” (contro i “comunisti”, contro il Sud e gli immigrati), hanno aggravato anziché curare questo nostro peccato d’origine, anche se, nella loro prima stagione, sono stati il canale di domande non insensate: la “rivoluzione liberale”, mito fondativo di Forza Italia, alludeva ad urgenze vere dell’Italia; come vera, verissima era l’esigenza, che mosse l’ascesa repentina della Lega, di dare risposte forti, identitarie prima ancora che politiche, al disagio di un Nord impaurito e sfidato dai processi di globalizzazione.
A Berlusconi, poi, va dato almeno un merito indiscutibile: avere costretto la politica italiana, con la sua presenza così ingombrante e divisiva, dentro un vestito bipolare.
Sarebbe triste se, come più di un segnale parrebbe indicare, insieme all’acqua sporca del berlusconismo venisse buttato via anche il bambino del bipolarismo, condizione indispensabile per far crescere finalmente anche da noi una plausibile prospettiva riformista. Davvero se così fosse, e se in particolare il Pd coltivasse anche lui l’illusione della “parentesi” invece che mettersi in gioco per un vero cambiamento, l’addio a questi vent’anni di transizione fallita acquisterebbe il sapore amaro di una banalissima restaurazione di ancien régime, o forse ancora peggio finirebbe come intermezzo verso nuove, imprevedibili avventure populiste.

da Europa Quotidiano 11.04.12

******

“Quel mito delle origini”, di Giuseppe Civati

«Ho denunciato sempre con forza, e davanti agli elettori leghisti, il drammatico allontanamento della Lega dalle sue motivazioni originarie. Se ricominceranno da lì, potranno esistere ancora». Bersani si appella ancora una volta alla Lega delle origini, al suo elettorato, come già fece lo scorso anno.
Vale la pena di ricordare però che «la Lega delle origini» è un mito che – anche se adottato in modo strumentale, come sembra voler fare il segretario nazionale del Pd – va quantomeno decostruito.
Perché «la Lega delle origini» ha gli stessi leader di oggi. Anche quelli che ora prendono le distanze dal caro leader. E gridano allo scandalo.
Perché gli stessi giovani della «Lega delle origini», ora maturi amministratori, sono diventati più credibili, recentemente, proprio perché hanno abbandonato certi toni inaccettabili che frequentavano con gran gusto, e hanno scelto il profilo di governo (penso ai veneti, soprattutto).
Perché «la Lega delle origini» è proprio quella che si è messa alla ricerca delle «origini», che ha scelto la «società stretta» di cui parlava Leopardi, che ha dato prova di razzismo (qualcuno dice light, come se il razzismo potesse esserlo) per anni e ha fallito tutti gli obiettivi che si era prefissa.
Perché «la Lega delle origini» è passata dal cappio e dalla difesa della legalità come punto di partenza di qualsiasi scelta politica all’alleanza che ha consentito a Berlusconi (e nella “sua” regione, la Lombardia, a Formigoni) di governare per un ventennio. E la questione politica della legalità, per quanto mi riguarda, non si pone con il Trota oggi, ma con la scelta di allearsi con il Pdl tanti anni fa.
Perché «la Lega delle origini» ha contrastato l’Europa, ha impoverito il dibattito politico di un paese in cui per altro non si riconosceva, ha cavalcato la paura, ha pensato (e tentato) di dividere l’Italia.
Perché ha tenuto in una mano l’ampolla del grande fiume, e nell’altra la privatizzazione dell’acqua.
Perché ha insistito sul tema dell’identità, nella sua versione peggiore, ispirata a un localismo esasperato e, spesso, autarchico.
Perché ha fatto il movimento di lotta e quello di governo. Anzi, di sotto-lotta (gloriosa la battaglia delle quote latte) e di sotto-governo, come possiamo apprezzare leggendo le cronache del dibattito che si è aperto all’interno del movimento dei puri che, alle origini, ce l’avevano duro.
Perché ha capito, certamente, il rancore del Nord, perché ha letto cose che da Roma non si percepivano (e ancora non si percepiscono, questo è il vero problema), senza offrire alcuna soluzione credibile.
Perché ha posto la questione di uno Stato più diffuso, ma è finita con i ministeri di Monza (lontani parenti del parlamento padano, che invece era una delle manifestazioni più limpide proprio della «Lega delle origini»).
Piuttosto che confidare nel ritorno di una «Lega delle origini » e della sua sopravvivenza, fossi in Bersani lancerei una grande sfida al Nord, come ho cercato di argomentare più volte, da ultimo in direzione nazionale (in cui mi sono sentito un po’ un marziano, perché all’ordine del giorno c’era l’ispano-tedesco, non il Lombardo-Veneto).
A Varese, a fine gennaio, abbiamo provato a lanciare un segnale: come interpretare la questione settentrionale (che c’è ancora, anche perché in questi anni è stata solo blandita e brandita, ma alla fine frustrata), come dare voce ai «contadini» contro i «luigini» (per dirla con il titolo di un bel libro di Gabrio Casati) e cioè a chi lavora e produce ricchezza, come ridare senso a una politica che sia territoriale, ma in senso moderno, non mitologico.
La Lega sopravviverà: si sceglierà tra il modello Ba-Varese di Maroni, tra i Bossiani irriducibili e le variabili venete.
Se non dovesse sopravvivere, me ne farei una ragione senza troppi patemi.
La questione, però, è un’altra: tornerà il Nord al centro del dibattito politico, in modo più compiuto e concreto? Sarebbe ora. E sarebbe ora di rivolgersi all’elettorato leghista non in modo strumentale, ma in modo diretto. Dicendo cosa abbiamo intenzione di fare noi. Per il futuro dell’Italia, non per le origini del leghismo.

da Europa Quotidiano 11.04.12