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Bersani: «Questa non è una riformina. E basta gettare fango su tutti», di Simone Collini

Bersani respinge la campagna contro il finanziamento pubblico: «Non accetto che si getti fango su tutto, non tutti i partiti utilizzano i rimborsi per ristrutturare case». Si discute sull’ultima tranche di 100 milioni. «Non accetto che venga gettato fango su tutti». Pier Luigi Bersani vede montare attorno ai partiti una campagna dai contenuti tutt’altro che inediti e dagli esiti ampiamente prevedibili. Grandi gruppi editoriali che mettono in discussione l’opportunità del finanziamento pubblico ai partiti, forze politiche (dall’Idv a Fli, dai grillini a pezzi del Pdl) che ne chiedono la cancellazione. «Non tutti i partiti utilizzano i fondi pubblici per ristrutturare case si sfoga il leader del Pd con chi lo avvicina mentre è in corso la riunione degli sherpa per disegnare le nuove regole serve qualsiasi forma la più stringente per controllare i bilanci ma non accetto che la Lega riesca a distruggere il sistema della democrazia, come era nella sua intenzione originaria. Dai tempi di Pericle, la democrazia ha sempre funzionato con il sostegno pubblico per evitare che il più ricco e il più forte facesse il burattinaio e governasse la città».
Il leader del Pd guarda con attenzione agli attacchi sferrati da più parti al sistema dei rimborsi elettorali, alle proposte di ridurli, abrogarli, alla richiesta di non erogare ai partiti l’ultima tranche di 100 milioni, prevista per luglio. E conversando con i cronisti alla Camera un po’ ricorda che i rimborsi già hanno subìto significativi tagli (erano 289 milioni di euro nel 2010, 189 nel 2011 e ora sono destinati a ridursi a 143), un po’ rivendica le scelte fatte dal suo partito prima che scoppiasse il caso Lusi e lo scandalo dei fondi leghisti («non dicano a noi che ci svegliamo ora, i conti del Pd sono certificati da una società esterna e abbiamo inventato le primarie e i codici etici») e un po’ difende il testo che in quegli stessi minuti stanno scrivendo gli sherpa di Pd, Pdl e Terzo polo per garantire maggior controllo e trasparenza sui bilanci dei partiti. «Non chiamatela riformina», dice a chi riporta le parole di qualche commentatore. E poi: «Non accetto che si butti fango su tutto, mica tutti i partiti ristrutturano le case con i soldi pubblici».
Una riforma del sistema dei finanziamenti pubblici si deve fare, per Bersani, che è primo firmatario di una proposta di legge su questo argomento depositata in commissione Affari costituzionali. Ma la discussione che va avanti da mesi sull’applicazione dell’articolo 49 della Costituzione dimostra (al di là del fatto che ieri il relatore del provvedimento, l’ex Pdl e oggi Popolo e territorio Andrea Orsini, non si è fatto vedere e ne è scoppiata una polemica) che bisogna estrapolare poche norme da approvare in tempi rapidi. «Per fare le cose per bene bisogna riflettere, bisogna ragionare. Ma da subito si possono aumentare i controlli su come vengono gestiti i soldi», è il ragionamento. Il Pd, dice Bersani, è pronto ad usare «qualsiasi strumento», anche il decreto, pur di intervenire rapidamente per rafforzare i controlli. E se qualcuno chiede di diminuire ancora il finanziamento pubblico, dice che il Pd è pronto a discutere, «purché sia chiaro che l’attività politica è stata finanziata fin dai tempi di Clistene, altrimenti si dica che diamo il bastone del comando al più ricco della città e abbiamo risolto».
L’ULTIMA TRANCHE DEI RIMBORSI
Ora entra nel dibattito pubblico la possibilità di non far entrare nelle casse dei partiti l’ultima tranche dei rimborsi. Non c’è solo chi, come Vannino Chiti, propone di sospenderne l’erogazione «fino a quando non verrà approvata la nuova legge» (che è un modo per sollecitare tutte le forze politiche a chiudere in fretta). Ci sono le Acli che chiedono di devolvere quei 100 milioni di euro per finanziare la partenza di 27mila ragazzi per il servizio civile nazionale e chi, come Antonio Di Pietro, propone di dare quei soldi «alla Fornero perché possa pensare alle parti sociali più deboli». Dice Bersani mentre gli sherpa concordano lo slittamento a dopo luglio: «Parliamo anche di quello. Ma occupiamoci anche di controllare come vengono spesi.

L’Unità 12.04.12

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“Scrivi partiti, leggi democrazia”, di Giorgio Merlo

La riforma dei partiti non è più prorogabile. E se non vogliamo riconsegnare l’Italia ad una nuova ondata populista simile a quella del ’94 con inevitabili rischi di caduta verticale della rappresentanza democratica e della stessa dialettica democratica, i partiti adesso devono battere un colpo.
Certo, sono in profonda crisi per grandi responsabilità proprie e per il clima di criminalizzazione scatenato da una feroce campagna mediatica dei grandi organi di informazione. Anche questa evidente a tutti. E le vicende legate alla Lega oggi, a Lusi e alla Margherita ieri e all’ex An ieri l’altro confermano, però, in modo persin plateale, che la riforma dei partiti in Italia non può più essere rinviata.
Una riforma che è necessaria anche perché, sino a prova contraria, l’alternativa democratica ai partiti continua a non esistere. O meglio, l’alternativa esiste ma sarebbe un concentrato di populismo, di autoritarismo e di cesarismo pericolosi e devastanti per chi continua a nutrire fiducia e speranza in una democrazia rappresentativa.
Non a caso, è proprio la miglior cultura cattolico democratica ad insegnarci la profonda differenza che esiste tra la “democrazia dei partiti” e la “democrazia delle persone”. La prima fatta dal confronto tra soggetti collettivi; la seconda retta da una cerchia oligarchica e dispotica che può tranquillamente convivere con una democrazia di fatto “sospesa”. Ma questa riforma, però, va fatta dal parlamento. Severino, Fornero e chicchessia pensino a governare, peraltro in modo eccellente come stanno facendo, i loro settori di competenza. Al parlamento il compito di affrontare e risolvere i nodi politici. E la riforma dei partiti è appunto uno di questi temi. Certo, un conto è evocare la riforma, altra cosa è tradurla in un articolato legislativo.
Ma, al di là delle ricette e della riforma che sarà approvata dal parlamento, è indubbio che attorno al futuro dei partiti si gioca la stessa credibilità della nostra democrazia. Una democrazia senza partiti non esiste e un sistema politico che si basa esclusivamente sul ruolo decisivo e miracolistico del “salvatore della patria” è destinata ad intraprendere, prima o poi, una deriva sudamericana se non autoritaria.
Certo, così non si può andare avanti come è semplicemente impensabile il perdurante silenzio di fronte ai cosiddetti “partiti padronali” o “personali” che ormai caratterizzano la stragrande maggioranza dei partiti italiani. È sotto gli occhi di tutti. Con i partiti padronali o personali, oltre a ridurre la democrazia ad un semplice orpello puramente ornamentale, la stessa gestione delle risorse è appaltata esclusivamente al “principale” e alla sua corte.
È sufficiente farsi una domanda: quanti sono i partiti italiani che fanno certificare i propri bilanci ad una società esterna? Uno, il Pd. Quanti sono i partiti italiani che non riportano il cognome del leader nel simbolo del partito? Pochi, se non pochissimi. Due esempi concreti per arrivare sostanzialmente ad una conclusione: nel nostro paese l’affermarsi dei partiti personali, e quindi padronali, ha negato alla radice quell’impianto democratico, partecipativo e trasparente che dovrebbe sempre caratterizzare il profilo di ogni formazione politica. E questo al di là della sua connotazione, della sua origine e del suo progetto politico.
Potremmo fare decine di esempi che confermano questa pericolosa deriva e che spiegano, senza tante analisi sociologiche e politologiche, le ragioni di fondo di questo decadimento etico e politico dei partiti. Certo, per superare queste degenerazioni servono atti concreti e non solo declamazioni di principio o meramente dettate dall’emergenza. Atti concreti, e quindi legislativi, che sono però essenziali per garantire la democrazia, per conservare il pluralismo e per certificare la trasparenza nella gestione delle risorse.
Innanzitutto la premessa che senza partiti si archivia la democrazia. Anche quando il superamento dei partiti viene sostenuto per ragioni modernizzatrici o moralizzatrici, l’esito non può che essere sempre lo stesso: e cioè, un sistema politico affidato a singoli. Una sorta di “dittatore democratico”.
In secondo luogo i partiti hanno un ruolo decisivo ed essenziale nella società democratica se rispettano anche al loro interno e sino in fondo la prassi democratica e partecipativa. Quindi va denunciato senza intransigenza e con nettezza la deriva personalistica e oligarchica. Una deriva che, se non viene arrestata, crea inesorabilmente le degenerazioni a cui abbiamo assistito in questi giorni e in questi ultimi mesi.
Quando c’è un capo o un padrone e non solo un leader o un segretario la democrazia è sospesa. E nella democrazia sospesa tutto è lecito e tutto è tollerato in virtù del fatto che il dissenso e il confronto interni sono permessi sino a quando non mettono in discussione ciò che fa e ciò che decide il “capo”. E, su questo versante, più che di riforma dei partiti si deve parlare di autoriforma dei partiti.
Infine va ripristinata la piena trasparenza nella vita interna ai partiti. Certo con una legge più severa e meno esposta alle furbizie e agli escamotage. Ma soprattutto, va eliminata quella discrezionalità e quella arbitrarietà di cui oggi godono quasi tutti i partiti.
Saranno solo i fatti a dirci se esiste la volontà politica per riformare realmente il mondo dei partiti o se prevarrà, ancora una volta, la tentazione gattopardesca.
Ma adesso in discussione non c’è solo il futuro e la prospettiva dei partiti che sono e rimangono semplici strumenti della lotta politica ma soprattutto la conservazione della democrazia nel nostro paese. E su questo non sono ammesse furbizie o pigrizie di sorta.

da Europa Quotidiano 12.04.12

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