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"Il Politecnico parlerà inglese un passo importante per il paese", di Irene Tinagli

Gli ingegneri italiani sono sempre stati un gran vanto per il nostro Paese, una tradizione che ha trainato la rinascita industriale del dopoguerra e che ha dato una forte identità a molte nostre aziende, marchi e prodotti. Una tradizione spesso sbandierata con orgoglio per contraddire le teorie più pessimiste sul potenziale del nostro Paese. Confesso di averlo fatto anch’io quando vivevo negli Stati Uniti. Ricordo una discussione con alcuni accademici e imprenditori americani e italiani «emigranti», il tema era il declino della formazione universitaria italiana, e come controargomento portai ad esempio le nostre facoltà d’ingegneria e i Politecnici, che da sempre sfornano ingegneri di primissima qualità. Mi sentii ribattere che probabilmente erano molto bravi, ma non parlavano una parola d’inglese. Questo accadeva poco meno di 15 fa. Molte cose sono accadute da allora. Il mondo ha attraversato trasformazioni tecnologiche, economiche e sociali che all’epoca sarebbero state impensabili. Anche gli ingegneri italiani, ormai, parlano l’inglese. L’iniziativa del Politecnico di Milano sancisce il completamento di un percorso di «ammodernamento» che probabilmente sarà seguito presto da altre facoltà. Un cambiamento che non solo darà un bel contributo a tutti i nostri ingegneri che vogliano misurarsi con mercati e opportunità a livello internazionale, ma che renderà l’Italia un Paese più attraente per tutti gli studenti stranieri che vogliano approfittare della eccellente qualità della formazione ingegneristica del nostro Paese. Tutto questo agevolerà quel processo di scambio culturale e di apertura internazionale fondamentale per l’innovazione e la competitività di un paese.

C’è solo un piccolo, tenue rammarico. Imparare a conversare in una nuova lingua non cancella mai la capacità di conversare nella lingua madre. Ma quando si imparano concetti tecnici, specifici, che sono totalmente nuovi, li si imparano nella lingua con cui vengono presentati per la prima volta. E non viene automatico tradurli nella lingua madre come può accadere con parole consuete come buongiorno o buonasera. Anzi. Chiunque abbia esperienze di studio e specializzazione all’estero sa quanto tempo e fatica richieda «ritradurre» in italiano termini ed espressioni apprese per la prima volta in una lingua straniera. Questo significa che la strada del cambio linguistico per le nuove generazione di ingegneri italiani potrebbe essere senza ritorno. Non sarà banale per ragazzi formatisi in lingua inglese tornare a progettare in italiano.

Non è un dramma, ed è più lungimirante una scelta di questo genere di quella fatta, per esempio, da quelle università catalane che impongono esami in una lingua che non parla più nessuno. Ma è comunque un piccolo pezzo della nostra tradizione che ci lasceremo alle spalle.

E ogni grande tradizione deve sapersi adattare e cambiare pelle se vuole continuare a vivere nella realtà del suo tempo e non solo nei musei e nei libri di storia.

La Stampa 12.04.12

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