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"Non sarà solo colpa dei partiti", di Stefano Menichini

Di chi sarà stata la responsabilità, se andrà a finire come cominciano a ipotizzare i sondaggisti (Paolo Natale oggi su Europa), cioè con un movimento irriducibile a qualsiasi logica di governo che schizza oltre il 10 per cento, e in generale un’area di vario estremismo che sale oltre il 25 per cento?
Conosco la risposta più gettonata. È la più facile. Sarà stata colpa dei partiti: incapaci di autoriformarsi, di emendarsi degli errori e degli orrori commessi coi soldi pubblici, di ritrovare sintonia con un paese esausto e arrabbiato.
Non è una risposta soddisfacente. È solo una parte della verità. Anzi, non è neanche del tutto vera. La prima parziale riforma del finanziamento pubblico che i giornali hanno definito con tono liquidatorio «al ribasso» impedirebbe già da sola, da subito, il ripetersi dei casi Lusi e Belsito. In più, si inquadra in un progetto che richiede un tempo minimo per introdurre una novità assoluta nella storia repubblicana: lo status giuridico dei partiti; l’introduzione di regole di trasparenza, democrazia e controllo là dove regnano da decenni discrezionalità, opacità, tribalismo.
Ma questo non è più sufficiente a soddisfare la fame di devastazione che divora i critici della famigerata partitocrazia. Come non basterebbe il taglio dei rimborsi elettorali proposto saggiamente da Fassino: un solo euro per voto espresso. La furia s’è già scatenata: «Non un euro, zero euro!». Che vuol dire: partiti, dovete chiudere. Basta.
Abbiamo sempre dissuaso il Pd dal commiserarsi con l’argomento del complotto ai suoi danni da parte di poteri e gruppi editoriali forti. Ognuno però deve prendere ora le responsabilità che competono. La narrazione che sta passando in Italia non è scritta dai partiti, né i partiti da soli sono in grado di invertirne il senso. La domanda non è: «riformatevi». La domanda è: «scomparite». E se anche i partiti si riformassero più radicalmente di quanto siano capaci di fare, la pressione non si alleggerirebbe. Anzi.
Tutto questo avrebbe una logica se davvero si puntasse a costringere i partiti in uno stato di necessità che li obblighi a prolungare la stagione dei governi tecnici: opzione discutibile, per qualcuno nel Pd inaccettabile, ma in sé non tragica per il paese.
Solo che esiti del genere non si possono pianificare a tavolino. Quando una diga si rompe, l’acqua trova strade impreviste. E i fautori dichiarati od occulti della purga benefica al sistema dei partiti potrebbero ritrovarsi domani, avendo sperato nel trionfo dello stile Monti, col trionfo dello stile Beppe Grillo. Che vuol dire No Tav, no riforma del lavoro, no rilancio delle opere pubbliche, no liberalizzazioni, no tutto: centinaia, migliaia di no ripetuti rabbiosamente in ogni parte d’Italia.
Il sistema dei partiti uscito malconcio dalla crisi della Seconda repubblica (e siamo appena agli inizi) non è in grado di imporre una convincente exit strategy. Non lo vogliamo né lo possiamo assolvere. Nella nostra prossimità al Pd ci battiamo attivamente contro la leggenda del ritorno al partito di massa anche perché sappiamo che, non potendosi realizzare nelle masse, esso si invererebbe intanto nel rigonfiamento degli apparati. Il finanziamento pubblico è un elementare fattore democratico di bilanciamento di forze, però sono corsi davvero troppi soldi.
Essendo anche noi di Europa parte di questo mondo, faremo per primi ogni cosa possibile per ridurne il costo e il peso.
Però non possiamo neanche caricare i partiti di una missione titanica di rigenerazione democratica sapendo che marciano con le gomme bucate.
Ognuno allora deve fare il proprio mestiere. L’informazione per esempio non ha solo il compito di raccontare, amplificare, denunciare, tutte cose che si stanno facendo benissimo: per sua stessa costituzione commenta, propone, indica vie alternative percorribili che non siano l’intimazione al suicidio, intuisce gli esiti possibili compresi quelli peggiorativi dell’esistente.
Insomma, offre all’opinione pubblica una narrazione: l’attuale è in gran parte frutto di un mainstream che non s’è accontentato dall’uscita di scena di Berlusconi e trova nuova forza nelle obiettive nefandezze di inqualificabili pezzi di classe dirigente. Non si corre il rischio dell’autocensura. Quello di montare una valanga senza interrogarsi su dove questa vada a cadere sì.
Stiamo facendo bene questo nostro lavoro, lo stanno facendo bene coloro che hanno maggiore peso, impatto, responsabilità? Non lo so, ho forti dubbi. Prevale soprattutto la voglia di calciare forte la palla e vedere quale finestra si rompe. Inevitabilmente, anche quest’ultimo tentativo dei partiti si infrange contro un muro di diffidenza popolare: è una cattiva notizia.
Non vorrei ritrovarmi fra qualche anno a leggere le recriminazioni già ascoltate negli anniversari di Tangentopoli da chi s’era illuso e aveva alimentato speranze di palingenesi, per poi ritrovarsi disgustato dal reale, concreto, corso della storia.

da www.europaquotidiano.it

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