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"Depistata la verità", di Benedetta Tobagi

Forse non ve ne siete resi conto, ma ieri mattina, quasi in sordina, si è chiusa un´epoca. Per quanto sopravviva una flebile speranza di nuove inchieste, ieri a Brescia nella sostanza (resta solo il ricorso in Cassazione) si è chiusa, con bilancio fallimentare, la pluridecennale stagione delle inchieste giudiziarie per le bombe della “strategia della tensione”. La strage di Brescia gode di un triste primato: nessun condannato. «Me l´aspettavo» è il commento più frequente al dispositivo della sentenza d´appello. Realismo comprensibile, ma non per questo meno tremendo. Quanto è terribile essere preparati a qualcosa di inaccettabile sotto il profilo etico, civile e semplicemente umano? Non aspettarsi più condanne per una strage di matrice politica che ha ucciso 8 persone: 5 insegnanti attivi nel sindacato, 2 operai, un ex partigiano. Un microcosmo specchio dell´Italia che pacificamente lottava, lavorava e sperava, in piazza della Loggia per una manifestazione antifascista e in piazza ucciso dall´ennesima bomba neofascista (con buona pace dei “negazionisti” di casa nostra, questo è accertato). Mentre l´Italia inorridiva davanti alla carneficina, il luogotenente per il triveneto dell´organizzazione terroristica Ordine Nuovo, Carlo Maria Maggi, arringava i suoi “soldati”: «Brescia non deve rimanere un fatto isolato». Assolto: ma siano noti a tutti i suoi reiterati proclami stragisti, nell´Italia dove le stragi sono accadute per mano di individui che l´hanno fatta franca.
Terribile perché – e lo vedi negli occhi rossi, nelle facce tirate – dopo una lunghissima inchiesta (per consentire lo svolgimento di un´indagine complessa grazie all´impegno civile dei famigliari delle vittime ci sono stati interventi legislativi ad stragem per prorogare i tempi oltre il limite dei 2 anni) e un lungo processo, la possibilità di condannare esisteva. Parafrasando Pasolini: oggi non solo sappiamo, ma abbiamo faticosamente accumulato prove e indizi, «che in tanti processi comuni bastano e avanzano a condannare» – commenta a caldo un legale di parte civile. Insufficienti a provare il concorso in strage al di là di ogni ragionevole dubbio nel rito lento e cauto del processo accusatorio, in uno stato di diritto. Sia chiaro a quanti storcono il naso pensando che qualcuno andasse a caccia di un colpevole a tutti i costi. Non è un caso che le prove, nei processi per strage, non bastino mai.
Quest´assoluzione è solo l´ultima, umiliante vittoria di un´attività sistematica volta a distruggerle e depistare le indagini. Cominciata la mattina della strage, col frettoloso lavaggio della piazza, con sacchi di materiale raccolto dopo l´esplosione finiti nella spazzatura, anziché repertati: forse anche frammenti del timer della “bomba fantasma” su cui in aula si è guerreggiato. Le testimonianze dei primi periti, concordanti con la descrizione del defunto collaboratore Carlo Digilio (l´armiere di Ordine Nuovo, che preparò l´ordigno di piazza Fontana) non sono bastate a far ritenere credibile la sua testimonianza. Brescia fu il prototipo di una strategia di depistaggio sofisticata (poi smascherata dagli stessi tribunali). Una tecnica più subdola delle “piste rosse” costruite intorno a piazza Fontana: la “falsa pista nera”. I responsabili? Si additò un manipolo di fascistelli sbandati, piccoli criminali capeggiati dall´istrionico manipolatore Ermanno Buzzi. Una pista circoscritta, lontana dalle “trame nere” milanesi (oggetto del secondo ciclo di processi, che mandò assolti gli imputati per strage, ma tracciò il quadro della rete terroristica cui doveva appartenere la manovalanza) e da quelle venete, a cui appartenevano gli imputati dell´ultimo processo. Processo istruito anche sulla base di note informative del Sid coeve ai fatti (la fonte era l´imputato Maurizio Tramonte): queste portano dritto alla galassia terroristica di Ordine Nero, che aveva esplosivi, uomini, intenti eversivi, responsabile di uno stillicidio di attentati nell´anno precedente, filiazione del blocco eversivo di Ordine Nuovo, disciolto dopo la condanna del 1973 per ricostituzione del partito fascista. Un manipolo di sbandati prudentemente lontano dalle trame di golpe “bianco” autoritario o presidenzialista – anch´esse più sofisticate del progetto di golpe militare modello greco di Borghese – emerse proprio nel 1974 con le inchieste Mar e “Rosa dei venti”. Una pista nera “sbiadita” e innocua, portata avanti con ogni mezzo dal generale Francesco Delfino, passato sul banco degli imputati. Assolto dal concorso in strage, forse leggeremo nelle motivazioni che è stato responsabile di favoreggiamento, ormai prescritto: le arringhe di parte civile l´hanno argomentato in modo stringente. Sarebbero andate diversamente le cose se i centri di controspionaggio del Sid, anziché occultarle fino agli anni Novanta, avessero fornito nel ‘74 quelle note informative (confermate anche dal generale del Sid Maletti, un “depistatore” di piazza Fontana, dal suo buen retiro sudafricano)? Se i carabinieri di Padova, comandati dal piduista Del Gaudio, avessero fornito le copie che avevano? Se il centro di controspionaggio di Padova non avesse distrutto non solo i documenti, ma – contro regolamenti – anche i registri che dovrebbero lasciarne traccia? Una parte di Stato ha lavorato con costanza e sistematicità per coprire i bombaroli che alimentavano la tensione, e poi per proteggere se stessa. Le condanne mancate parlano dell´inquietante sopravvivenza di reti di solidarietà occulte, suggeriscono una continuità di pratiche illegali annidate in seno alle forze di sicurezza, che ci balenano davanti agli occhi nei “depistaggi sofisticati”, a base di piste false ma verosimili, messi in atto quando s´indaga sulle stragi mafiose, sulle trattative Stato-mafia.
La zizzania e il grano continuano a crescere insieme. Siamo figli di quei peccati e di quelle omissioni, ne portiamo il peso, ne paghiamo il prezzo. Oggi, nell´Italia impoverita, pessimista, delusa dalla politica, stritolata dalle organizzazioni mafiose, la tenacia e la battaglia democratica degli inquirenti, delle parti civili, di tanta società civile forniscono l´insegnamento più prezioso: vale comunque la pena lavorare, si riesce a consolidare un corpo vivente di carte, prove, voci, immagini che ci raccontano cosa è accaduto attorno a noi. Le assoluzioni non bastano a cancellarlo. Cantava De Andrè: “Per quanto voi vi crediate assolti, siete per sempre coinvolti”.

La Repubblica 15.04.12

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Piazza della Loggia, cala il sipario tutti assolti: strage senza colpevoli”, di Cinzia Sasso

Il pm aveva chiesto l´ergastolo. Zorzi: vince il garantismo Maggi: innocente, me l´aspettavo. Un´altra strage senza colpevoli. Dopo piazza Fontana, a Milano, 12 dicembre 1969, anche piazza della Loggia, a Brescia, 8 maggio 1974, otto morti e 102 feriti, resta un massacro impunito. Il sipario scende su un pezzo della nostra storia recente e sulla scena resta solo il buio. Alle undici e dieci del mattino, trentotto anni dopo quel giorno di sangue e terrore, è di nuovo nel nome del popolo italiano che la giustizia si arrende. Ed è con un silenzio sbigottito che un´aula strapiena accoglie l´ultimo schiaffo. Anche se loro, i parenti delle vittime, dovranno pagare le spese processuali. Dopo quattro giorni di camera di consiglio, Enzo Platè, il presidente della Corte d´Assise d´appello, legge la sentenza di assoluzione. È un pronunciamento che ricalca quello di primo grado: tutti puliti, seppure con l´ombra del dubbio. Assolto il medico veneziano Carlo Maria Maggi; l´imprenditore diventato giapponese Delfo Zorzi; l´informatore del Sid Maurizio Tramonte; il generale dei carabinieri Francesco Delfino. Assolto – anche se lui non rischiava l´ergastolo ma solo di essere chiamato a risarcire le parti civili – Pino Rauti, fondatore di Ordine Nuovo e già segretario del Msi.
L´accusa aveva chiesto quattro ergastoli, il processo si chiude con quattro assoluzioni, ma il silenzio dell´aula e i commenti a caldo sono una lezione di civiltà. Roberto Di Martino, il procuratore di Cremona distaccato a Brescia per seguire questo processo insieme al pm Francesco Piantoni, hanno fatto di tutto per portare alla luce la verità. Nonostante il tempo passato, le prove distrutte, le indagini deviate, le testimonianze false, i pentimenti tardivi e le ritrattazioni. Dicono: «Siamo sereni perché è stato fatto tutto il possibile. Ormai, questa, è una vicenda che va affidata alla storia, ancor più che alla giustizia». E Manlio Milani, il presidente dell´associazione caduti di piazza della Loggia: «Le sentenze si possono non condividere, ma si accettano». Adriano Paroli, sindaco di Brescia: «Quello che rimane è l´attesa con cui la città e l´intero Paese stanno aspettando da tanti anni una risposta. Una risposta che deve essere fatta di verità e giustizia. E oggi mancano entrambe all´appello». Perfino Alfredo Bazoli, figlio di una delle vittime – sua madre si chiamava Giulietta, era un´insegnante, aveva 34 anni – oggi consigliere comunale del Pd, esprime solo una grande tristezza: «La politica deve chiedersi perché non siamo riusciti a raggiungere una verità processuale, indiscutibile, che ci metta al riparo dalle mistificazioni. Questo resta un buco nero nella democrazia italiana».
Resta solo la verità storica. E Guido Salvini, il magistrato che a Milano si occupò delle inchieste sulle trame nere, la riassume così: «Le enormi fonti di conoscenza portate dalle indagini di Milano e Brescia testimoniano comunque che le stragi di quegli anni furono opera della strategia di Ordine Nuovo». Maurizio Tramonte, fonte del Sid con il nome Tritone, aveva confessato il suo ruolo e aveva raccontato di aver partecipato con i capi ordinovisti veneti alla preparazione dell´attentato. In aula, però, ha ritrattato. Sono stati quattro i processi celebrati finora: il primo, nel 1981, si chiuse con la condanna di alcuni esponenti della destra bresciana e poi uno di loro, Ermanno Buzzi, venne strangolato in carcere dai neri Pierluigi Concutelli e Mario Tuti. Quelle condanne divennero assoluzioni in appello. Nell´84 sono i pentiti a far aprire un nuovo filone di indagine e sotto accusa sono ancora uomini della destra eversiva che però saranno assolti per insufficienza di prove. Nell´intreccio delle indagini si fa strada l´ipotesi del coinvolgimento di apparati dello Stato e dei servizi segreti. A guidare le prime indagini, in modo che sarà impossibile ricostruire la verità, era Francesco Delfino.
Adesso si aspettano le motivazioni. Mentre resta aperto un altro procedimento, a carico di un uomo che allora era minorenne. Nell´amarezza generale, risalta la «gioia immensa» degli imputati assolti. Da Delfino a Maggi («Sono innocente, me l´aspettavo») a Zorzi, che dal lontano Giappone manda a dire: «Ha prevalso il garantismo. Spero solo che il pg non voglia impugnare in Cassazione. Sarebbe procrastinare l´attesa dei familiari delle vittime ai quali ci sentiamo vicini».

La Repubblica 15.04.12

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“Quei misteri d’Italia”, di PIERO COLAPRICO

«Non fu», è questa l´amara cantilena delle stragi italiane. Non fu Freda e non fu Ventura, per la banca dell´agricoltura in piazza Fontana, 1969, 12 dicembre, la «madre» di tutte le violenze di Stato e Antistato. «Non fu» nemmeno il loro fedele Delfo Zorzi, camerata trapiantato in Giappone, rintracciato anni dopo. Nuovi indizi portavano a Zorzi, ma per sentenza il nazista della provincia veneta diventato Hagen Roi, «non fu». Non c´entra né con Milano, anche se erano stati i suoi camerati Freda e Ventura a ordinare, comprare, smistare i timer, a comprare proprio quel modello di valigia, ma non basta. E «non fu» Zorzi nemmeno per la strage di piazza della Loggia a Brescia, il 28 maggio del 1974, così ieri è stato ripetuto alla fine del processo d´appello. In queste due città, 25 morti e 192 feriti.
«Non fu» Mario Tuti, fascista e assassino di carabinieri, il mandante dell´ordigno sull´Italicus, il 4 agosto 1974, 12 morti, 48 feriti. Come «non fu» Luciano Franci a fare da palo alla stazione di Santa Maria Novella, «non fu» Piero Malentacchi a confezionare la bomba. Il perenne «non fu» spunta cupo dopo varie tonnellate di carte scritte a mano, a macchina, a macchina elettronica, infine a computer. Archeologia di verbali e chiavette usb. Con dentro migliaia di testimonianze che significano persone che parlano, ricordano, piangono, si portano dietro il male subito, o nascosto, o fatto. Il «non fu» viene stabilito dopo interrogatori di chi non ricorda, balbetta, imbroglia: e quasi rimpiangi, quando li senti, che tu sia parente, che tu sia pubblico, i cardini dello Stato democratico, quel «meglio dieci colpevoli liberi che un innocente in galera».
Eppure, stringendo i denti, è a questo che le associazioni delle vittime si aggrappano: alla possibile verità nella legalità. È nella verità e nella legalità, in fondo nella giustizia, che sperano sempre, mentre si va moltiplicando via Internet il buio delle sentenze in contraddizione, delle invettive e delle ipotesi balorde. Le stragi, più che di nebbia, sanno di labirinto: l´abbiamo esplorato tante volte, riuscendo a scorgere sempre qualche cosa, ma è solo l´ombra nera del Minotauro, e non entra nell´identikit.
C´è chi, in passato, ha gettato la croce sugli inquirenti. Negli anni ´70 e ´80, mentre per il terrorismo rosso che sparava alla classe dirigente sono stati impiegati in forze i migliori magistrati e investigatori, a cercare di raccapezzarsi nelle nefandezze di terrorismo nero e possibili golpe sono stati lasciati – si diceva – quelli che c´erano. E uno di questi solitari, che cercava i fili scoperti di Ordine Nuovo, è stato ammazzato nel 1980: il giudice Mario Amato. Vera o falsa che sia questa lettura, negli ultimi anni, con la politica spesso più assente e lontana, è stata però la magistratura a «resistere», a cercare.
Il bilancio, però, resta scarso. Anzi, se osserviamo da vicino tutte le stragi, sapendo quello che sappiamo, la piena verità c´è solo in una. È quella del 17 maggio 1973 davanti alla questura milanese. Veniva commemorato il commissario Luigi Calabresi, ucciso sotto casa un anno prima. Viene lanciata una bomba, l´obiettivo è l´allora ministro dell´Interno Mariano Rumor, invece muoiono dilaniate quattro persone, cinquantadue i feriti. L´autore resta lì: è Gianfranco Bertoli. Un anarchico, si definisce. È anche informatore dei servizi segreti Sid e Sifar, vivrà una vita da ergastolano senza aggiungere mezza parola al gesto, a come s´è procurato la bomba, ma è stato lui.
Esistono poi stragi con sentenze di colpevolezza passata in giudicato: Giusva Fioravanti e Valeria Mambro sono ritenuti i responsabili della strage più sanguinosa, quella del 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna, 85 morti e 200 feriti. I parenti delle vittime sono d´accordo con i giudici, sanno però che questa decisione non soddisfa tutti gli esperti: anzi, per alcuni, la potentissima bomba messa nella sala d´aspetto è in qualche modo legata a un altro mistero italiano, alla precedente strage di Ustica. Era il 20 giugno, quando un Dc 9 Itavia scoppia e precipita. Molto probabilmente per causa di un missile francese che, su mandato americano, cercava di colpire l´aereo sul quale viaggiava il nemico di sempre, il libico Muhammar Gheddafi. Anche qui lunghe, difficilissime indagini, colpevoli zero: con non pochi dipendenti dell´Aeronautica militare, alcuni di servizio ai radar, che muoiono per suicidi dubbi e incidenti sospetti.
Anche l´ultima strage – l´ultima prima delle autobombe piazzate senza dubbio dalla mafia del ´93 – è circondata dall´ambiguità. È la strage di Natale del 1984: il 23 dicembre, il treno Napoli-Milano-Brennero scoppia in galleria a San Benedetto Val Di Sambro, 16 morti, 117 feriti. Due le condanne principali, riguardano i mafiosi Pippo Calò e Guido Cercola, ossia il cassiere dei corleonesi e un picciotto che sarà trovato in cella con i lacci delle scarpe stretti intorno al collo. Nonostante le indagini capillari, «non fu» condannato un possibile complice fascista, ritenuto l´anello di congiunzione tra criminali organizzati e altri «ambienti», altri stragisti.
Qualche giorno dopo le vetture sventrate, i bambini feriti lungo i binari, si conta un´altra vittima. Uno dei primi soccorritori, il vice-ispettore della Polfer, è sotto shock. Si punta la pistola alla tempia e si uccide. Ha lasciato un biglietto: «Questa è una società maledetta». È una frase che risuona ancora, quando si parla tra chi ha perso i suoi cari: «I nostri morti – si sente ripetere – vagano e non trovano un posto dove stare in pace con noi che li piangiamo». Una memoria annaffiata dalle lacrime, questo ci resta dopo i troppi «non fu»?

La Repubblica 15.04.12

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