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"Perchè l'Ungheria spaventa l'Europa", di Adriano Sofri

Se l’Italia delle lauree non ride, l’Ungheria piange a dirotto. La sua nuova Costituzione, il principale colpo di mano della “maggioranza introvabile” di Viktor Orbán, porta in calce la firma del presidente Pál Schmitt, dimesso dopo che gli è stato revocato il dottorato dalla facoltà di educazione fisica: aveva copiato 197 pagine su 215 della sua tesi. Ora è una gara a frugare negli archivi per scovare reciproche false lauree. Oggi Orbán proporrà il suo candidato alla successione, i nomi che corrono sono quelli di János Ader, già presidente del Parlamento, o di József Szájer, ligi parlamentari europei. Gáspár Miklos Tamás, autorevole professore di filosofia spedito anzitempo in pensione – a 62 anni, con altre migliaia, compresi 200 giudici, da una specie di epurazione governativa – si è augurato una Presidente donna, e tanto meglio se zingara e lesbica: e non scherzava.

Ci sono paesi segnati da un vittimismo nazionale: la Serbia, per esempio. Ce ne sono altri attraversati da una quantità di vittimismi, ciascuno dei quali ha qualche buona ragione. È il caso della Polonia, e del paese a lei più affine, mi pare, nonostante la lingua, l’Ungheria. Vi si sono accumulate le sopraffazioni come in certe ripide stratificazioni geologiche.

Strade e piazze cambiano nome tante volte, statue vengono abbattute e rimesse in auge.

La destra ungherese di oggi avverte, come già la Polonia di trent’anni fa, che l’Europa occidentale «non può capire». Si dichiara figlia della rivoluzione del 1956 contro la sinistra, compresa quella sinistra libertaria che alla rivoluzione del 1956 si ispirò. Apre la sua nuova Costituzione con parole di orgoglio nazionale: «Noi siamo fieri che il nostro re Santo Stefano abbia edificato lo Stato ungherese su solide fondamenta e abbia reso il nostro paese parte dell’Europa Cristiana mille anni fa. Siamo fieri dei nostri avi che si batterono per la vita, la libertà e l’indipendenza del nostro paese. Siamo fieri…». Si può andar fieri, naturalmente. Il confronto consola affabilmente: «L’Italia è una repubblica democratica, fondata sul lavoro». Non c’era molto di cui andar fieri, nell’Italia del 1945. L’Ungheria, che ha pagine nazionali così belle, perse nel giro di mesi del 1944 seicentomila suoi concittadini, ungheresi di origine ebraica: tanti quanti i morti italiani nella Prima Guerra, e la popolazione italiana del ’15 era più che doppia.

Oggi i cittadini ungheresi di origine ebraica sono centomila, e a Budapest vive la terza comunità europea per numero, tra i 70 e gli 80 mila. L’Ungheria del 1944 era occupata dai nazisti tedeschi, ma l’impegno delle Croci frecciate e della burocrazia ungherese nel piano di sterminio di Eichmann fu fanaticamente devoto. Ricevendo il premio Nobel, nella Svezia di Raoul Wallenberg, lo scrittore Imre Kértesz ricordò questa Ungheria feroce e servile.

Kertész vive a Berlino, ed è la bestia nera della destra ungherese. Un altro importante scrittore, l’ottantenne Akos Kértesz, premio Kossuth, dopo aver pronunciato giudizi durissimi sull’indisponibilità del paese a misurarsi col proprio passato ed essersi visto revocare la cittadinanza onoraria di Budapest, ha “scelto” un mese fa di andare a chiedere asilo a Montreal. È delicato proclamarsi orgogliosi di qualcosa senza ricordarsi di vergognarsi di qualcos’altro. Il4 aprile un deputato del partito fascista Jobbik, Zsolt Barath, ha risuscitato in Parlamento la famigerata accusa di omicidio rituale di una quattordicenne cristiana, mossa nel 1882a 15 ebrei del villaggio di Tiszaeszler. Era troppo, anche per il partito di governo. Lo scorso febbraio Orbán era andato al parlamento europeo a rispondere alle critiche. Aveva negato che gli intellettuali ebrei in Ungheria fossero preoccupati.

Pochi giorni fa c’è stata al castello di Buda una gran celebrazione del centenario della nascita di István Örkény (19121979), l’autore delle Novelle da un minuto. In una un giovane angosciato dice al rabbino: «Ho due grossi problemi». Ma che problemi vuoi avere, nel fiore degli anni, e così bello e forte, si meraviglia il rabbino. «La donna che amo è ebrea». «E allora? Anche tu sei ebreo, no?» «Questo è il secondo grosso problema».

A proposito dell’amara autoironia di Örkény, Péter Esterházy ne sottolinea la distanza dall’inclinazione ungherese all’aneddoto in cui ci si immagina sempre vincitori. Avevo appena sentito l’aneddoto, in realtà una normale notizia, sul primo ministro Orbán, che si chiama Viktor, e ha un fratello che si chiama Gyösö, che a sua volta in ungherese vuol dire Vittorio. Il padre che aveva caricato sulle spalle dei figli nomi così gravosamente anti-olimpici, e che, dice un simpatizzante biografo, Péter Kende, lisciava loro la schiena in modo più materiale, era un tecnico in una cava di pietre, e ora ne possiede un certo numero.

Orbán, avvocato, come pressoché tutti i fondatori del partito Fidesz – tranne un paio di economisti – ha una propensione per la forza, putiniana, per così dire, e un fastidio per la debolezza. Nell’accezione benevola lo si chiamerà decisionismo; la meno benevola teme lo slittamento dall’astratto al concreto, dalla debolezza ai deboli. Martedì 10 aprile, rispondendo alla richiesta di una commissione etica permanente sul razzismo, dopo il brutale discorso antisemita, Orbán ha ribadito il suo rispetto per tutte le minoranze. È un fatto che un giornalista a lui ostentatamente legato, già cofondatore di Fidesz, Zsolt Bayer, impiega regolarmente ripugnanti toni antisemiti. Del resto è convinzione diffusa che la madre di Orbán sia di origine rom, che sarebbe una buona notizia. Quanto alla documentata spregiudicatezza di Orbáne dei suoi negli affari, è un capitolo su cui il visitatore italiano tossicchierà imbarazzato.

Ogni volta che il visitatore sta per scandalizzarsi di fronte a qualche enormità della politica ungherese, deve ricordarsi dell’Italia e mordersi la lingua: che si tratti del debito pubblico o della stagnazione produttiva o delle bravate dei parlamentari da trivio. C’è quel solo momento a nostro favore, al palazzo presidenziale in cima al Castello. Il picchetto marziale esegue con tutte le regole il cambio della guardia, ma il palazzo è spigionato. Almeno al Quirinale, per ora, i titoli di studio sono regolari. In memoria dei ragazzi della via Pal, provo a interpellare i membri di un popoloso circolo dello skateboard. Rispondono all’unisono: «La politica? Shit!» Li esorto ad articolare di più, ma niente: «Shit!», e basta. Dev’essere un nuovo esperanto giovanile – l’esperanto ebbe una gran storia in Ungheria. Immagino che un visitatore ungherese interessato alla politica si sentirebbe rispondere così, in una scolaresca italiana: «Shit!» Anche le persone dell’opposizione rifiutano di chiamare «fascista» la politica di Orbán. «Nazionalpopulista», più appropriato, ma vago. Nel motivato allarme in Europa occidentale, ma anche nella sua sbrigativa semplificazione, ha giocato una confusione fra l’estrema destra del partito Jobbik, questa sì razzista, e la destra autoritaria di Fidesz. La confusione non è casuale, perché fra maggioranza e Jobbik c’è anche un gioco delle parti. Però il gioco delle parti è almeno bilanciato dalla rivalità, e il partito di Orbán, abituato a strumentalizzare – in patria e ancora di più all’estero – lo spauracchio di Jobbik, rischia di finire da apprendista stregone.

Nei sondaggi Fidesz è in caduta mentre i consensi a Jobbik crescono ripidamente. Il dato più allarmante è il suo successo crescente fra i giovani, e soprattutto fra i più istruiti. Qualcosa del genere, direte, succede anche in Francia, dove però l’adesione giovanile a Marine Le Pen è minore fra gli universitari. Soprattutto, in Francia – o in Germania, e nella stessa Italia – formazioni di sinistra più radicale o ecologiste hanno presa, mentre in Ungheria l’opposizione di sinistra è desolata. Non è un caso – anche questo noi italiani lo capiamo bene, era il nostro pane duro di ieri – che l’opposizione ungherese, capace tuttavia di buone mobilitazioni civili, faccia tanto affidamento sulle censure europee e le critiche dei media internazionali al regime di Orbán. I più avvertiti apprezzano i moniti europei, ma si tengono alla larga dai risvolti “greci”.

Per ora comunque al centro della “questione ungherese” sta il doppio tema della Costituzione e della democrazia. Esattamente: che cosa succede quando una limitazione all’arbitrio della maggioranza in democrazia, per esempio la necessità di una maggioranza dei due terzi per decisioni di rilievo maggiore, diventa essa stessa l’arbitrio.

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“Ungheria, democrazia in stile Orbán riforme a raffica senza l´opposizione”

Nei primi 18 mesi di governo 25 nuovi provvedimenti nella Carta costituzionale. La destra sfrutta il momento propizio e colpisce le minoranze come i gay e i rom. Nel 2010 Viktor Orbán e il partito Fidesz, e i suoi alleati, hanno ottenuto il 52,5% dei suffragi e oltre i due terzi dei seggi, e questa “maggioranza introvabile” li ha autorizzati a deliberare in piena autosufficienza una nuova Costituzione, una serie di leggi definite “cardinali”, e una sequenza vertiginosa di leggi parlamentari: totale, 365 leggi in un anno e mezzo! Qualcosa di affine e al tempo stesso di opposto a quello che è successo alla maggioranza di Berlusconi nell´ultima legislatura, affine per l´ampiezza – comunque minore – della maggioranza, opposta per numero e portata di leggi varate. Quelle misure hanno al centro questioni da noi trattate: regolamentazione della libertà di stampa, sottomissione delle autorità indipendenti all´esecutivo, l´avvenuta rimozione in tronco del presidente della Corte Costituzionale, la riduzione alla ragione di partito di magistratura e Banca Centrale.
Orbán proclama che «il Parlamento (in Ungheria è monocamerale) funziona anche senza opposizione». All´inizio, sembrerebbe difficile spiegare la metamorfosi di questo primo ministro che, come dice, ha trascorso all´opposizione «quindici degli ultimi vent´anni»: e quell´opposizione si voleva libertaria contro l´autoritarismo e il burocratismo degli epigoni del “socialismo”. Naturalmente, il passaggio dalla dissidenza al potere ispessisce le arterie. Ma forse oggi si può almeno affiancare a questa ovvietà il problema universale dei poteri politici nella tardodemocrazia: come assicurarsi una durata – qualcosa come una dinastia – paragonabile a quella dei poteri economico-finanziari e multinazionali. Senza ridurre di un millimetro le differenze, è a questo problema comune che rispondono i giri di walzer Putin-Medvedev, (e i governi “tecnici”, se non forse per la durata, per le mani libere), o certe prosecuzioni famigliari negli Stati Uniti, o i colpi di Stato africani o latinoamericani per un “terzo mandato”, fino al modello ungherese di Orbán: che chiameremo dunque dei “Due terzi”.
Nel 2010, il partito Fidesz, dopo esser restato fermo un giro, torna al potere, grazie al discredito che il governo “socialista” è riuscito a procurarsi: il suo capo si fa registrare mentre si vanta di aver imbrogliato il popolo sull´inesistenza della crisi. Conosciamo questa dinamica, no? Peraltro Orbán non è un magnate dei media, ed è giovane (è nato nel 1963). Dispone della maggioranza prevista per varare una nuova Costituzione. Anche di questo noi italiani abbiamo fatto esperienza: che, a parte gli Stati Uniti e i film sul quinto emendamento, le buone Costituzioni sono quelle di cui ci si dimentica quasi che esistano, e quando diventano di nuovo così importanti è perché qualcuno sta cercando di farle fuori. La storia destina l´Ungheria a uno straordinario attaccamento costituzionale. Quando il regime sovietico va in pezzi (l´Ungheria che ha aperto le porte ai tedeschi ha dato un colpo decisivo alla caduta del Muro) la Costituzione “socialista” viene via via corretta fino a non somigliare più a quella originaria. Orbán, il cui decisionismo è comunque fatto all´80 per cento di immagine, vuole l´atto fondante di una nuova Costituzione: intenzione comprensibile. L´attuazione ha sollevato proteste accanite. Ma è ancora più discutibile la premessa: cioè l´uso di una maggioranza schiacciante per decisioni destinate a coinvolgere tutti e presumibilmente per molto tempo, comprese le generazioni a venire. La democrazia si presume (presuntuosamente) fatta di bilanciamenti e compensazioni. Dunque quando fissa a due terzi la maggioranza necessaria alle decisioni più importanti, lo fa per coinvolgere in esse forze diverse e altrimenti opposte. Un´elezione libera che dia a un partito quella maggioranza dei due terzi è di per sé il sintomo di una deficienza democratica? Risponderei di sì, di fatto. Non di diritto. Il partito che dispone dei due terzi e li usa – ne abusa – sa però che quell´evenienza sarà difficilmente ripetibile, che lui stesso non riotterrà una tale maggioranza, e che i suoi rivali a loro volta non la otterranno. Così in una specie di parentesi d´eccezione si fissano leggi e regole che probabilmente non si potranno più cambiare. Il gioco democratico diventa qui un vero rompicapo: per cambiare le nuove leggi occorrerà abolire l´obbligo dei due terzi, ma per abolirlo occorrerà disporre dei due terzi. (Ed è solo una corsa al rincaro la richiesta dell´opposizione ungherese di portare la maggioranza necessaria alle modifiche costituzionali ai quattro quinti: di questo passo si arriva alla clausola dell´unanimità che zavorra l´Unione Europea).
C´è un´altra singolarità: dopo aver enunciato i singoli principii, la nuova Carta rinvia, quanto alla attuazione, ad altrettante “leggi cardinali” che la disciplineranno. Ciò che, si capisce, fa del principio enunciato un guscio vuoto e disponibile. Anche le leggi “cardinali” richiedono i due terzi. Nei primi 18 mesi di governo ne sono state varate ben 25.
Questo è quello che ha fatto Orbán. Mettere in Costituzione in queste circostanze argomenti almeno controversi vale a bruciare i vascelli alle spalle altrui. «La vita dell´embrione e del feto sarà posta sotto la protezione dal momento del concepimento». «L´Ungheria proteggerà l´istituto del matrimonio come unione di un uomo e di una donna stabilita per decisione volontaria, e la famiglia come base per la sopravvivenza della nazione». «L´Ungheria /assicurerà/ che la sua agricoltura resti immune da ogni organismo geneticamente modificato…».
L´anziano e prestigioso Dr. László Sólyom, già presidente della Corte Costituzionale e professore all´università di gran parte dei governanti ed estemporanei estensori della nuova Costituzione, non si perdona di non averli bocciati finché era in tempo. Anche in economia. Orbán, che non si nega gli attacchi ad alzo zero contro Wall Street e la finanza internazionale, fu e resta il promotore di una flat tax al 16 per cento, dalla quale prometteva di ricavare la ripresa produttiva. Che non c´è stata: è rimasta solo quella tassazione anti-progressiva, anzi, è stata messa in Costituzione.
E ancora le minoranze. La Costituzione le tutela, poi c´è la vita. Nella quale si odiano i gay perché sono gay. Si odiano i rom perché sono diversi, si odiano gli ebrei perché sono simili, ma “più” – più ricchi, nel luogo comune, più colti. Si odiano gli ebrei perché si pensa di non poter diventare come loro, si odiano gli zingari perché si ha paura di diventare poveri e reietti come loro – per qualche ragione affine si disprezzano i gay. I rom sono circa 700 mila, una minoranza ingente, in un paese di 10 milioni, e al loro interno corrono differenze sociali rilevanti e per lo più ignorate. L´estrema destra vorrebbe cacciarli coi gendarmi, come ai bei tempi, o farsi i propri gendarmi – la nota canzone delle ronde. Il governo ha messo fuori legge una banda paramilitare anti-zingari, e ha costituito un ministero “per l´inclusione sociale”, che ha a capo un pastore riformato, teologo di formazione, Zoltán Balog. Il proposito è di “offrire possibilità di lavoro a persone cui il normale mercato del lavoro è precluso”. Il problema è qui: se si offra un lavoro, o si costringa a un lavoro – per esempio condizionandogli sussidi, assistenza ecc. Si è messo anche questo in Costituzione, oltre al diritto al lavoro: il dovere di “contribuire col lavoro alla crescita della comunità secondo le proprie capacità e possibilità”… E´ una differenza impercettibile a prima vista, salvo mutare il lavoro volontario in lavoro forzato: il risultato più probabile è l´esaltazione del divario fra i rom “integrati” e quelli proscritti. Lo scrittore rom Sándor Romano Rácz vi segnala la fonte di “una forma di ribellione contro l´assimilazione”. Il governo ungherese ha caldeggiato la formazione di una commissione europea per l´integrazione dei rom. Nei paesi e nei villaggi, dove il confronto è fisicamente prossimo, i fascisti dello Jobbik fanno leva sull´odio per i rom, i quali hanno perduto più di tutti dalla fine del “socialismo”, e sono tornati a occupare l´ultimo gradino in cui i penultimi colpiti dalla crisi temono di precipitare. Due ungheresi su cinque sono poveri, dicono le statistiche. Quindici su cento poverissimi.

La Repubblica 16 e 17.04.12

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