attualità, cultura

"La maledizione televisiva", di Giovanni Valentini

Non c’è da meravigliarsi più di tanto che perfino il governo di “impegno nazionale”, quello che dovrebbe traghettare il Paese e portarlo fuori dalle secche della crisi, possa rischiare il naufragio sugli scogli della televisione. Se la Prima Repubblica era fondata sul lavoro, come recita ancora l’articolo 1 della Costituzione, la Seconda Repubblica è fondata infatti sulla tv: cioè sulla formazione e sulla raccolta del consenso attraverso la tv. E per Berlusconi questo è un dogma assoluto.

ÈUNA verità rivelata, una stella polare, oltre che naturalmente una fonte inesauribile di guadagno e quindi un “oggetto oscuro” di interesse privato. Al confronto della “questione televisiva”, aperta ormai da più di trent’anni, anche lo scandalo dei finanziamenti pubblici ai partiti diventa in fondo una bagattella da squallidi tesorieri-faccendieri. Qui c’è ben altro. C’è, dal ’94, un partito-azienda che s’è costituito per supplire alle coperture di cui aveva goduto fino ad allora da parte del vecchio Caf (il sistema di potere con a capo Craxi, Andreotti e Forlani) e per difendere gli affari personali del suo leader. Altro che cartellina “The Family” scoperta nella cassaforte leghista: Umberto Bossi,i suoi figli,i suoi congiunti e tutti i suoi sodali, sono soltanto piccoli epigoni dei fasti berlusconiani.

Ora, finalmente, il “governo tecnico” ha stabilito che le nuove frequenze televisive non verranno più regalate ai plutocrati dell’etere – e cioè a Rai e a Mediaset, come aveva deciso il precedente governo Berlusconi – bensì messe all’asta per essere cedute al miglior offerente e ricavarne magari risorse da destinare agli ammortizzatori sociali, ai pensionati o agli “esodati”. Avendo sollevato il problema su questo giornale alla fine dell’agosto scorso, quando il Cavaliere era ancora a palazzo Chigi, non siamo sospetti di opportunismo retroattivo. E non possiamo perciò che apprezzare questa scelta di equità, nel pieno di una crisi che richiede sacrifici molto pesanti a tutti i cittadini.

Sul piano più strettamente tecnico, la vicenda ha aspetti paradossalie perfino grotteschi che possono interessare meno i lettori. Basterà solo ricordare che tutto deriva da una procedura d’infrazione aperta a suo tempo dall’Unione europea contro l’Italia, per una concentrazione televisiva che minacciava (e ancora minaccia) di riprodursi nel passaggio dal sistema analogico a quello digitale terrestre. Tant’è che nella stessa delibera del 2009 (n.181), con cui Bruxelles approvò la procedura del “beauty contest” (o concorso di bellezza) per assegnare le nuove frequenze, si prevedeva un tetto antitrust di cinque multiplex (fasci di frequenze), ognuno dei quali avrebbe potuto trasmettere fino a sei canali o programmi.

In realtà Rai e Mediaset dispongono già di quattro multiplex a testa e questi sono più che sufficienti per difendere il vecchio duopolio, con la relativa raccolta pubblicitaria e il relativo fatturato, a patto però di produrre contenuti validie rinnovare la programmazione. Questa è la legge del mercato. Ma adesso, in vista dell’asta, il partito-azienda non accetta che nel decreto del governo venga indicato esplicitamente il limite anti-trust già stabilito dall’Ue: verosimilmente, la riserva mentale del Biscione è quella di trasformare un altro canale già acquisito in precedenza da Mediaset per le trasmissioni televisive sui tivùfonini (Dvb-H, digital video broadcasting handheld, cioè portatile) in un ulteriore canale digitale terrestre (Dvb-T, dove la lettera T sta appunto per terrestrial), aggirando così il tetto di cinque multiplex e arrivando in futuro a sei.

La logica e soprattutto la libera concorrenza, invece, vorrebbero che anche questa pratica venisse compresa nel “pacchetto” delle nuove frequenze. Magari per favorire l’ingresso nel mercato di un operatore indipendente, in grado di offrire (a pagamento) capacità trasmissiva alle tv locali o a qualsiasi altro produttore autonomo di contenuti, come avviene – per esempio – in Francia con il Gruppo Tdf.

Una volta approvato il decreto, comunque, l’intera partita passerà nelle mani dell’Autorità di garanzia sulle Comunicazioni che dev’essere rinnovataa breve. Alla futura Agcom spetterà il compito di definire le regole dell’asta, possibilmente allargando la platea anche agli operatori delle telecomunicazioni. Poco o tanto che lo Stato riesca a ricavarne, e secondo Mediobanca si tratta di almeno 1-1,2 miliardi di euro, quelle risorse potranno contribuire da una parte a favorire il pluralismo televisivo e dall’altra ad abbassare qualche tassa o a finanziare qualche spesa sociale. Di questi tempi, mentre tutti i partiti sono chiamatia ridurre drasticamente le proprie esigenze per salvaguardare la loro stessa funzione e credibilità, anche il partito-azienda è tenuto pro-quota a ridimensionare le sue pretese.

La Repubblica 18.04.12

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Frequenze tv, il Pdl attacca Monti “Patti traditi su Rai e Mediaset”, di GIOVANNA CASADIO e ALBERTO D’ARGENIO

ROMA – Lo scontro sull’asta per le frequenze tv si abbatte come una tegola sul vertice serale tra Monti e i leader di Pdl, Pd e Terzo Polo. Preparato dal premier per rilanciare la crescita, trovare la quadra finale sulla riforma del lavoro, affrontare i nodi della giustizia e, soprattutto, per blindare il patto politico con Alfano, Bersani e Casini, si trasforma in una resa dei conti dentro una maggioranza già in fibrillazione.

E il convitato di pietra è Silvio Berlusconi, che Monti incontrerà domani a colazione, infuriato perché giudica danneggiata Mediaset dalle decisione sulle frequenze. Tutto alla vigilia del cruciale consiglio dei ministri di oggi che approverà il Documento di economia e finanza (il vecchio Dpef) e il Piano nazionale di riforme da mandare a Bruxelles.

Le ore che precedono la cena di Palazzo Chigi si trasformano in un drammatico conto alla rovescia. Tutto succede alla commissione Finanze della Camera, dove si vota l’emendamento al decreto fiscale approvato lunedì dal governo che cancella il beauty contest (l’assegnazione gratis delle nuove frequenze digitali) e indice l’asta a pagamento. Il Pdl parte all’attacco e accusa: dopo un blitz del Pd il testo arrivato a Montecitorio è diverso da quello concordato in precedenza con Passera. Ma l’emendamento passa nonostante il no del Popolo della libertà e Grande Sud. Nel Pdl si narra di un Berlusconi infuriato in particolare con Gianni Letta, che avrebbe seguito la partita dietro le quinte. L’ex ministro Paolo Romani minaccia: «È un fatto gravissimo e da irresponsabili». Accusa Passera di non avere mantenuto i patti e svela la rabbia di Cologno Monzese: «Così com’è l’emendamento non consentirà a Rai e Mediaset di partecipare alla gara ». Se l’Unione europea, per bocca del commissario Almunia, dà il via libera all’asta ( «promuove la concorrenza»), a Roma è guerra. Romani protesta con Passera e Catricalà. Chiede ad Alfano di sollevare il tema nel vertice serale, di spingere per ritirare l’emendamento e dare tempo di trovare un accordo tra i partiti. Ma Bersani è categorico: «Il governo vada avanti». Lo staff di Passera intanto parla di “serenità” per quanto fatto, rimandando al mittente le accuse di inciucio con il Pd. Questo l’oggetto del contendere: il governo ha inserito il tetto di 5 Multiplex, che corrispondono a circa 5 canali digitali ciascuno. Rai e Mediaset ne hanno già quattro e aspettano la conversione di vecchie frequenze (Dvbh) in digitale (Dvtb). Per Romani la conversione avverrà entro 90 giorni, quindi prima della gara escludendo di fatto i due ex monopolisti che avrebbero già 5 Multiplex. Per il ministero dello Sviluppo «è falso»: «Non è automatico che avranno la conversione e comunque non arriverà prima della gara», spiegano i tecnici di Via Veneto. «E comunque il tetto è chiesto dalla Ue». Certo, aggiungono con malizia gli esperti del Pd, con il beauty contest scritto dal governo Berlusconi «questo limite veniva aggirato».

Tanto basta per guastare il vertice della distensione, sul quale piombano anche i dati negativi dell’Fmi. Monti aveva avvertito ABC ricordando che «non dobbiamo e non possiamo abbassare la guardia, dobbiamo proseguire con le riforme e con il risanamento». Un tema, quello della crescita, su cui Bersani insiste con un elenco di proposte per cercare di limitare i danni della recessione. Alfano punta alla diminuzione delle tasse, intestandosi la rateizzazione dell’Imu, altro elemento di tensione con il Pd. Casini media e ricorda che non possiamo pensare di uscire dalla crisi senza affrontare la «vertenza europea sulla crescita». «La crescita – ribadisce Monti – è il tallone d’Achille dell’Ue».

La Repubblica 18.04.12