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"Wall Street, la mano visibile che avvelena", di Francesco Guerrera

Il platano di fronte al numero 68 di Wall Street non c’è più. Ma lo spirito dei 24 pionieri che nel 1792 si riunirono sotto quell’albero e fondarono il primo mercato azionario di New York si respira ancora nelle anguste viuzze del Sud di Manhattan.
Basta fermarsi un momento ad un angolo di Wall Street ed alzare gli occhi dal Blackberry per osservare dal vivo la psiche dei mercati e del capitalismo americano.
Il flusso umano è rapido ed ininterrotto, quasi fosse diretto da un burattinaio con mille mani. La gente cammina con passo alacre, spinta dal desiderio di fare soldi e dalla paura di fallire – lo yin and yang della vita newyorchese.

E gli edifici torreggiano sulle strade, totem solenni pronti ad accogliere le migliaia di persone che hanno deciso di spendere gran parte della vita comprando e vendendo azioni.
«Il mercato è re, siamo noi sudditi che a volte sbagliamo», mi disse tanti anni fa un vecchio operatore di Borsa per spiegarmi in due parole l’essenza della finanza.
Negli ultimi anni, però, questa professione di fede laica è stata messa a dura prova. Il mito dell’infallibilità del mercato è stato sfatato dall’uno-due della crisi del 2007-2009 e dall’attuale disastro economico europeo.

Ed il credo nella «mano invisibile» di Adam Smith – un sistema di compravendita che, se lasciato operare in piena libertà, porta ad un risultato economico ottimale – è stato minato dagli interventi massicci dei governi nei sistemi finanziari di mezzo mondo.
E’ un’ironia pesante: a più di vent’anni dalla caduta del Muro di Berlino che consacrò la vittoria della democrazia e del capitalismo sulla dittatura statale del comunismo, la libera economia di mercato occidentale ha bisogno di aiuti di Stato per non affondare.
Altro che mano invisibile, oggigiorno la lunga mano del governo è visibile dappertutto. In America, la Casa Bianca ed il Congresso sono stati costretti a farsi dare miliardi di dollari dai contribuenti per evitare il collasso del mercato immobiliare e delle grandi banche.

Il risultato è che nove mutui su dieci negli Usa oggi sono garantiti da entità statali, che la Federal Reserve ha comprato tonnellate di titoli «tossici» da banche ed investitori per purgare il sistema e che i tassi d’interesse rimarranno bassissimi per anni per tenere l’economia in vita.
L’Europa è in una situazione simile. Negli ultimi mesi, la Banca Centrale Europea si è dovuta sostituire al settore privato come principale mezzo di trasmissione del denaro nell’economia.
In tempi normali, le istituzioni finanziarie prendono soldi dai risparmiatori e li prestano ad aziende e consumatori. Ma con il sistema finanziario paralizzato dalla tragedia greca, la farsa italiana e i pasticci spagnoli e portoghesi, le banche hanno abbandonato le trincee e battuto in ritirata, spaventando gli investitori e facendo impazzire i mercati.
Mario Draghi e i suoi sono stati costretti a scendere in campo, dispensando un triliardo di euro alle banche del continente per incoraggiarle a fare il loro mestiere: dare soldi all’economia reale.

Per ora, l’intervento massiccio dei governi occidentali ha funzionato solo a metà. Ha evitato il peggio – un’altra Grande Depressione negli Usa, la dissoluzione della moneta unica in Europa –, ma non ha risolto i problemi di fondo di quelle economie.
Anzi. La dipendenza di mercati e del settore privato dall’elemosina dei governi sta provocando degli scompensi finanziari ed economici che potrebbero portare alla prossima crisi.

Uno dei capi delle banche di Wall Street ha paragonato gli aiuti statali alla morfina. «Servono ad alleviare il dolore, non a curare la malattia», mi ha detto.
L’iniezione di capitali a basso prezzo da parte di governi e banche centrali sta portando investitori a prendere rischi che non dovrebbero.
L’emissione di «junk bonds» – le obbligazioni «spazzatura» emesse da società non proprio affidabili dal punto di vista finanziario – è a livelli altissimi sia in America che in Europa.
E negli Usa c’è stato un ritorno di fiamma di «titoli esotici», obbligazioni legate a beni non ortodossi tipo gli utili di Domino’s Pizza o le vendite di dvd de «Il paziente inglese» (non sto scherzando…). Nei primi mesi del 2012, gli alchimisti di Wall Street hanno venduto più di 5 miliardi di dollari di questa roba, il doppio dell’anno scorso.

Il vantaggio di questi strani animali nello zoo della finanza è che hanno tassi d’interesse molto più alti dei beni «sicuri» quali le obbligazioni del Tesoro americano.
È un fenomeno darwiniano: come le giraffe che dovettero estendere il collo per raggiungere le foglie, così i fondi pensione, gli hedge funds e persino la gente comune deve spingersi su investimenti rischiosi per guadagnare qualche soldo.
Decisioni razionali e comprensibili, ma che aumentano il rischio di nuove bolle speculative e mettono pressione su un sistema che non si è ancora completamente ripreso dalla crisi di tre anni fa.

La realtà è che, prima o poi, governi e banche centrali dovranno cedere il palcoscenico al settore privato, l’attore principale di ogni economia. Ma nessuno sa quando e come.
Il dilemma di Ben Bernanke alla Fed e Draghi alla Bce è che se si ritirano troppo presto, l’economia potrebbe ricadere nel coma, ma se rimangono troppo a lungo rischiano di fare la fine di Alan Greenspan – condannato per aver causato la crisi dagli stessi mercati che lo avevano beatificato per aver pompato l’economia negli anni precedenti.
«Non possono vincere», mi ha detto uno dei capi delle banche d’affari americane la settimana scorsa. «Qualsiasi cosa facciano, saranno criticati».
Che è la verità, ma anche un peccato perché le banche centrali hanno fatto il loro dovere – sorreggere il sistema quando era sull’orlo del crollo.

In America ed Europa si parla tanto di cambiamenti «strutturali»: riforme radicali dello Stato sociale e della tassazione, austerità fiscale, riduzioni drastiche dei deficit. Sono discorsi nobili ma anche facili per politici e commentatori, perché i tempi per rivoluzioni di questo tipo sono biblici. Come disse John Maynard Keynes, che di aiuti statali all’economia se ne intendeva: «Nel lungo termine saremo tutti morti».

Purtroppo i mercati e le economie, come i lavoratori di Wall Street, di tempo non ne hanno. Da quando quei 24 proto-operatori di Borsa si riunirono sotto il platano, il capitalismo mondiale ha solo un tempo: il presente. E per il momento è un presente dominato dall’ombra ingombrante dello Stato.

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario
del Wall Street Journal a New York.

La Stampa 22.04.12

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“LA PORTA CHIUSA DEL CREDITO”, di ALESSANDRO PENATI

Ltro è l´acronimo di Long term refinancing operation: il maxi finanziamento da 1.000 miliardi per tre anni concesso dalla Bce alle banche, a un tasso minimo dell´1%. Un intervento che per molti ha arrestato una crisi che rischiava di travolgere l´euro.
Gli obiettivi del LTRO erano cinque. (1) Scongiurare una crisi del debito pubblico, specie in Italia e Spagna che nei primi mesi del 2012 avevano ingenti volumi di titoli di stato in scadenza. Con LTRO la Bce ha dato alle banche i soldi e l´incentivo (lo spread tra costo del finanziamento e rendimento dei titoli) per intervenire a sostegno del debito pubblico. (2) Superare la crisi di liquidità delle banche che non si finanziavano più fra loro, e avevano difficoltà a rifinanziare le proprie obbligazioni in scadenza, per via dell´esposizione al rischio sovrano. (3) Guadagnare tempo per completare la ristrutturazione del debito greco, mettendo al riparo il sistema finanziario dal rischio di un default disordinato. (4) Sostenere i bilanci delle banche, migliorando il margine di interesse, per frenare il crollo dei titoli bancari in Borsa e permettere gli aumenti di capitale richiesti dall´Autorità Bancaria Europea (Eba). (5) Riavviare il ciclo del credito, riducendo la qualità delle attività accettate dalla Bce come garanzia per i propri prestiti, incentivando così le banche a prendersi più rischi e allargare i cordoni della borsa.
Obiettivi raggiunti, per ora, tranne l´ultimo, il più importante: la stretta creditizia c´è e si vede. E nonostante il cauto ottimismo dei documenti ufficiali, la situazione è destinata a peggiorare, anche a causa degli effetti collaterali del LTRO, come spesso accade quando al malato si somministrano dosi massicce di farmaci potenti.

LA DEBOLEZZA DEL CREDITO
La crisi bancaria nell´eurozona ha origine nella forte esposizione delle banche al rischio sovrano. Isolare le banche da questo rischio sarebbe prioritario per rilanciare la loro attività. Con il LTRO, invece, chiamando le banche a sostenere il mercato del debito pubblico, si sono ancor più legate le sorti del credito privato a quelle della finanza pubblica. E la via di uscita si complica. A fine febbraio le banche italiane detenevano 280 miliardi di titoli di Stato, a fronte di 200 miliardi di esposizione complessiva verso la Bce. Disfarsi di una tale mole di titoli non sarà facile: si rischia un crollo del valore del debito pubblico, anche perché sul mercato non c´è ancora traccia di acquirenti esteri.
Da questo punto di vista, il LTRO è in rotta di collisione con l´Eba. Le ricapitalizzazioni richieste dai suoi stress test, infatti, avevano l´evidente scopo di penalizzare i sistemi bancari con la maggiore esposizione al rischio sovrano: degli oltre 100 miliardi di aumenti di capitale richiesti, il 75% riguardavano Grecia (30), Spagna (26), Italia (15) e Portogallo (8). Quindi, mentre l´Eba penalizza le banche più esposte al rischio sovrano, la Bce le incentiva ad assumerne ancora di più.
Non è l´unica incoerenza. L´Eba stabilisce i requisiti di capitale prudenziali che le banche devono rispettare, avendo il compito di vigilare sulla stabilità del sistema finanziario europeo, ma opera nell´ambito degli accordi internazionali di Basilea. L´implementazione delle regole e la vigilanza bancaria è però delegata alle autorità dei singoli paesi, ognuna delle quali interpreta e applica le regole in modo autonomo. Se poi scoppia una crisi di liquidità, è compito della Bce intervenire; anche se, come si è visto, magari con obiettivi plurimi. Ma quando una crisi di liquidità degenera in insolvenza, sono allora gli stati sovrani (come Irlanda, Spagna, Belgio), e/o il Fondo di Stabilità Europeo (in Grecia) a intervenire.

La soluzione europea
Una confusione inaccettabile. La crisi bancaria è europea, e richiede una soluzione a livello europeo. Più del fiscal compact ci sarebbe stato bisogno di un accordo per una struttura comune di vigilanza europea, che stili le regole e le applichi uniformemente; e di un unico meccanismo di intervento in caso di crisi. Dopo la sovranità monetaria, servirebbe che gli Stati dell´euro delegassero anche la sovranità sulla vigilanza del sistema finanziario. Ma oggi è fantascienza.
Le indicazioni di vigilanza e il LTRO, anche se in modi diversi, disincentivano la ripresa dei prestiti bancari, e rallentano il necessario e inevitabile processo di ristrutturazione delle banche. Dopo la sbornia da debito, la stabilità del sistema richiede un lungo processo di delevering, che inevitabilmente riguarderà anche le banche italiane. Più che ai confronti internazionali, è al profilo temporale dell´indebitamento a cui bisogna guardare. Dieci anni fa, i prestiti delle banche italiane alle imprese e le famiglie residenti erano pari al 60% del Pil nominale; oggi sono il 95%: è illusorio sperare che il rapporto possa continuare ad aumentare; più realisticamente si stabilizzerà o diminuirà. Questo implica una crescita dei prestiti che non supera di molto l´inflazione. Per molte aziende, significa stretta creditizia: per un´impresa sana, infatti, il capitale circolante, tipicamente finanziato dalle banche, cresce più rapidamente dell´economia (a prezzi correnti). Infatti, nei tre anni precedenti la crisi, la crescita del credito bancario alle piccole imprese italiane, che in banca finanziano prevalentemente il circolante, è rimasta stabile al 6%; oggi è negativa, dopo aver toccato un massimo di circa il 3% nel corso del 2011.

iL rischio italiano
Il trend alla riduzione del rischio nei bilanci delle banche è anche imposto dalla regolamentazione. Nei requisiti patrimoniali, viene data grande enfasi al numeratore, il capitale; non abbastanza al denominatore, il valore delle attività ponderate per il rischio (Rwa). Ogni banca valuta le Rwa con un proprio modello, con criteri che differiscono da paese a paese e che sono variati nel tempo: i valori non sono confrontabili, ma forniscono qualche indicazione utile a capire i trend. Da prima della crisi a oggi, le tre maggiori banche italiane hanno ridotto complessivamente il peso delle Rwa sul totale delle attività dal 59% al 49%. Comunque le si misuri, il trend alla riduzione del rischio degli attivi è chiaro; e nella scala dei rischi, quelli non garantiti alle imprese, specie piccole, sono in alto. Un confronto internazionale, per quanto poco significativo, ci porta alle stesse conclusioni: il rapporto italiano rimane più elevato che per le maggiori banche inglesi (40%), francesi (35%) o svizzere (20%). La riduzione del rischio degli attivi è quindi la strada che le banche percorreranno per migliorare i ratio patrimoniali.
Disquisire se la contrazione del credito sia dovuta a una minor domanda o a una contrazione dell´offerta, è ozioso: in recessione la domanda complessiva di credito da parte delle imprese si riduce perché viene meno la componente legata al finanziamento delle acquisizioni, le operazioni immobiliari, e quelle finanziarie a leva; ma è anche vero che le banche elevano gli standard per l´accesso al credito per ridurne i rischi. Dare la colpa a l´una o l´altra parte non risolve nulla.
La prima riforma del nostro mercato finanziario dovrebbe invece essere la creazione di mercato di obbligazioni corporate; un canale di finanziamento che da noi esiste solo per una manciata di grandi imprese. Per le piccole e medie imprese la soluzione è la cartolarizzazione dei loro prestiti. Ma le banche italiane dovrebbero accettare di vedersi disintermediate, cooperando alla creazione e collocamento di queste obbligazioni, invece di vederle come concorrenti delle proprie, o come un modo per rifilare spazzatura ai risparmiatori.

dipendenze pericolose
Il LTRO rischia anche di creare una pericolosa dipendenza dal credito facile della Bce. Il primo problema del LTRO è la exit strategy: se la maggioranza delle banche aspetta la fine dei tre anni per rimborsare la Bce, una nuova crisi di liquidità è assicurata. E poiché la Bce dichiara di non voler monetizzare il tutto, le banche probabilmente cercheranno di uscire dalla trappola dei tre anni rimborsando il prima possibile (se ne avranno le risorse). Data l´incertezza sulla tempistica dell´exit strategy, dubito che vogliano impegnare le risorse della Bce in nuove linee di credito con le imprese che, di fatto, costituiscono un impegno più duraturo. Per le banche rimane comunque la convenienza a utilizzare i fondi della Bce come sostituto delle proprie obbligazioni, rimborsandole, o evitando di emetterle; piuttosto che per espandere i prestiti. Anche contando i vari scarti di garanzia, non credo che il costo del finanziamento medio con la Bce superi di molto il 2%. Se usato per un prestito a un´impresa il margine per la banca sarebbe oggi al massimo 1,5-2%. Se invece è usato per evitare di emettere una tipica obbligazione a 5-7 anni, visto il costo del rischio Italia, risparmia anche il doppio.
La Bce richiede inoltre che le banche offrano in garanzia le loro attività migliori, diventandone così creditore privilegiato, dopo i depositanti; ma rendendo in questo modo più rischiose, perché maggiormente subordinate, le obbligazioni bancarie. Le banche, quindi, non hanno né la convenienza né l´incentivo a usare il LTRO per aumentare il credito alle imprese.
Ma il danno maggiore provocato dai finanziamenti della Bce sono i facili margini che questi garantiscono alle banche, riducendo la pressione a ristrutturare rapidamente (dismettendo attività, tagliando costi, innovando prodotti, competendo aggressivamente sui prezzi, eccetera). Invece le ristrutturazioni bancarie sono una necessità, soprattutto in Italia. Ma richiedono idee, capacità e coraggio che, evidentemente, mancano.

La Repubblica 22.04.12