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"Partiti: chi vuole il modello americano", di Francesco Cundari

L’ottanta per cento di affluenza registrato alle elezioni francesi ha stroncato sul nascere ogni tentativo di estendere alla Francia le considerazioni sul discredito della politica abitualmente riservate all’Italia. Analisi e commenti incentrati sullo spettro dell’astensione non hanno retto alla prova dei fatti. Una smentita che suscita però almeno un dubbio anche sulla versione originale, riservata alla politica di casa nostra.
In questi giorni in Parlamento si discute di nuovi tagli e nuove regole sulla trasparenza del finanziamento ai partiti, come è giusto che sia dopo gli scandali che hanno investito prima il tesoriere della Margherita e poi quello della Lega. Ci sono però anche buoni motivi per diffidare di alcuni rilfessi condizionati del dibattito sull’argomento, a cominciare dal ritornello che ogni commentatore che si rispetti ripete almeno una volta al giorno sui giornali, alla radio, sul web e in tv, a proposito della «fiducia nei partiti» che sarebbe arrivata all’8 per cento (come scriveva in febbraio Renato Mannheimer sul Corriere della Sera), o anche al 4 per cento, (come nello stesso periodo sosteneva Ilvo Diamanti su Repubblica) e ora addirittura al 2 (di nuovo Mannheimer sul Corriere di domenica scorsa).
L’improvviso rilievo attribuito a sondaggi sulla fiducia nei partiti in generale (non su questo o quel partito) è una novità di quest’ultima fase, che precede i recenti scandali, dunque non può esserne la conseguenza. Più verosimilmente, se non altro per ragioni cronologiche, questo improvviso interesse per la popolarità dei partiti in generale è stato causato dalla novità del governo tecnico, sostenuto da una larghissima maggioranza trasversale agli schieramenti. Alla suddivisione destra-sinistra si è così sostituita quella politici-tecnici.
Resta però il fatto che la stessa domanda sulla fiducia «nei partiti» è mal posta. Saremmo curiosi di vedere un sondaggio in cui a tale quesito si affiancassero le domande sulla fiducia dello stesso campione in ciascun singolo partito, chiamato in causa con nome e cognome, dal Pd alla Lega, dall’Italia dei Valori al Pdl. Sbaglieremo, ma ci sentiremmo di scommettere che il totale sarebbe assai superiore al 2,al 4 e anche all’8 per cento.
Questo non significa, naturalmente, che in Italia non ci sia una gigantesca crisi di legittimazione della politica e delle istituzioni democratiche, un fatto che è davanti agli occhi (e alle orecchie) di tutti. Ed è un fatto non meno evidente che ad alimentare la tendenza alla condanna generica, senza distinzioni, sia stata la scelta di formare un governo sostenuto dalle forze principali del centrodestra e del centrosinistra. Appare pertanto degno di nota che a guidare questa campagna siano proprio quei quotidiani che più hanno spinto per la formazione di un governo tecnico, e proprio con l’argomento della crescente delegittimazione della politica e dei partiti.
Quale che sia il giudizio su genesi e operato del governo Monti, questo gioco delle tre carte non può essere accettato. Il governo tecnico non è nato dal fallimento della politica, ma dal fallimento della politica della destra. Non sono stati i partiti a portare l’Italia sull’orlo della bancarotta, ma Pdl e Lega. Se oggi siamo nelle condizioni in cui siamo, non è per colpa dei politici in generale, ma di alcuni politici in particolare: Silvio Berlusconi e Umberto Bossi, con tutti i loro alleati e sostenitori.
Il tentativo del partito berlusconiano di ripresentarsi ancora una volta come il nuovo che avanza, dopo l’ennesima operazione di chirurgia plastica, punta esplicitamente a raccogliere i frutti di questa campagna contro la politica, magari in alleanza con un altro imprenditore dai molteplici interessi (anche nella comunicazione) come Luca di Montezemolo. L’annunciata intenzione di rinunciare ai fondi pubblici per il nuovo partito-movimento rende l’operazione ancora più spudorata: il partito del miliardario, principale responsabile della crisi e prima ancora del discredito della politica italiana (in patria e all’estero), che si propone come paladino della campagna per la moralizzazione della politica.
L’unico sondaggio affidabile sulla fiducia dei cittadini nei partiti è l’affluenza al voto. I sostenitori del sistema americano, incentrato sui finanziamenti privati, dovrebbero riflettere sul fatto che negli Stati Uniti le forze e gli intellettuali radicali, che contestano i partiti in generale, li accusano proprio di questo: di essere tutti ugualmente schiavi delle grandi corporation, si tratti dell’industria farmaceutica o di quella delle armi, dei giganti del petrolio o della finanza. Fatto sta che negli Stati Uniti quando i cittadini che si recano alle urne raggiungono il 65 per cento si parla di record storico. In Italia, alle ultime elezioni, l’affluenza è stata dell’80 per cento, proprio come in Francia.

L’Unità 24.04.12