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"Ricongiunzioni ingiustizia per migliaia", di Walter Passerini

Un salasso per le casse dello Stato, che rischia però di venir trasferito nelle tasche degli interessati. Emblematica la storia di Paolo Mannucci. Nato il 29 agosto 1951, mezza carriera nel pubblico e mezza nel privato: 19 anni di contributi versati all’Inps, come dipendente di aziende private, e 21 anni di contributi all’Inpdap come dirigente pubblico alla regione Marche. Qualche anno fa fece domanda di ricongiunzione dall’Inps all’Inpdap: rinunciò perché gli chiesero 83 mila euro. Allora gli dissero che avrebbe ottenuto il suo scopo portando i contributi dall’Inpdap all’Inps, del tutto gratuitamente. Ma Mannucci non poteva prevedere il futuro e non fece i conti con il cambio delle regole in corsa: la legge 122 del 2010 (governo Berlusconi), accelerata dalla riforma delle pensioni del dicembre 2011 (governo Monti). «Questa legge mi ha sconvolto la vita – spiega Mannucci -. Sarei potuto andare in pensione a luglio 2011. Con la legge la ricongiunzione all’Inps da gratuita è diventata onerosa: mi hanno chiesto 202 mila euro se pago in unica soluzione, 300 mila euro se rateizzo. Se invece punto alla ricongiunzione all’Inpdap dovrei versare 275 mila euro in unica soluzione, 350 mila se rateizzo. Questa legge è incostituzionale per i suoi effetti retroattivi, un’ingiustizia verso chi ha carriere e percorsi lavorativi spezzettati». La riforma, da alcuni definita frettolosa, non ha tenuto conto di vicende personali diventate un grave problema collettivo, che tocca migliaia di famiglie. Nata per ridurre le asimmetrie del sistema previdenziale, è diventata fonte di iniquità. L’alternativa è secca: o gli interessati pagano (ma quanti se lo possono permettere con i tempi che corrono) oppure ricorrono non alla ricongiunzione, ma alla totalizzazione, che è cosa ben diversa. Nel caso di Mannucci, avendo maturato 40 anni di versamenti nel novembre 2011 avrebbe dovuto lavorare in attesa di pensione per altri 18 mesi, per avere due distinte pensioni, calcolate con il metodo contributivo e non retributivo; in soldoni un salasso per il valore della pensione, che sarebbe diventata pari al 48% della sua retribuzione. Una vera eterogenesi dei fini questa travagliata vicenda all’italiana, diventata un cocktail esplosivo tra la legge del 2010 e la più recente riforma: nata per fare equità, per tosare i privilegi (tra i quali quelli di alcune casse e fondi speciali come quelli degli elettrici e dei telefonici), per impedire il passaggio delle lavoratrici pubbliche all’Inps dopo l’aumento dell’età pensionabile, ma anche per non aumentare gli squilibri di cassa, la combinazione dei due fattori produce ingiustizia. Premia l’immobilità di chi se ne sta quatto nello stesso posto o ente per oltre 40 anni e punisce la flessibilità di chi ha carriere spezzate, che non sempre sono una scelta. Saranno gli intermittenti di oggi e i giovani precari di domani, a cui si predica la virtù della mobilità e del cambiamento del lavoro, a pagare una riforma basata solo sul sacro vincolo della contabilità?

La Stampa 27.04.12