attualità, politica italiana

"Il vero rischio? Il disinteresse", di Carlo Carboni

Con il nuovo collasso della politica, sempre inciampata su mancate decisioni che la riguardano, con le nuvole che si addensano sul futuro dell’economia e con la crisi morale che incombe da un ventennio, si torna a parlare di classi dirigenti. Però, qualche paletto andrebbe messo in questo dibattito. Primo: occorre distinguere l’élite, “ciò che si è” (un vertice), da classe dirigente, “ciò che si fa” con visione e competenza. L’avvento della democrazia ha reso le élites più numerose e plurali, ma le classi dirigenti sono diventate più rare, come i leader capaci di interpretare gli eventi, trasmettere nuove idee, aprire nuove vie. I caratteri dei leader dei tempi andati (decisori /moralizzatori) hanno esaurito la loro missione negli anni 60 quando l’Italia era un altro mondo. Il contesto è ora più complesso e non c’è più lo “scudo Atlantico”: è perciò più comodo crogiolarsi nell'”esserci” e pensare in segreto che riformare un grande paese sia una pia illusione.

Secondo: ovunque nel vecchio mondo occidentale, siamo nel mezzo di una crisi della democrazia rappresentativa. Il malessere democratico è acutizzato dalla crisi economica, ma non riducibile a essa, visto che se ne scrive da due decenni. Quanto alla rappresentanza politica, l’Occidente é a corto di leader capaci di tenere il passo delle veloci trasformazioni e dell’enorme quantità d’informazione. L'”incerta e strana” Europa dei tempi correnti è segno della caduta di pensiero strategico dei principali leader, formatisi all’ombra del tradizionale combinato disposto militare, nazionale e industriale del XX secolo, a sua volta al tramonto in un mondo economicamente policentrico e plurale in quanto a società e potere. Perciò, nel migliore dei casi la gerontocrazia, che in Europa guida due grandi paesi come Germania e Italia, guarda al passato per fare i conti con il presente e scivola sul piano inclinato degli interessi autoreferenziali. Il vecchio mondo è a corto di poteri intelligenti. Lo dimostra l’enorme crescita senza nuove regole della finanza, a cui oggi fa capo il reticolo dei poteri che contano. Anche le recenti vicende che in Italia hanno investito i vertici leghisti (ma non solo) dimostrano quanto siano finanziarizzati i partiti ridotti a cartelli elettorali preda della “filosofia del denaro”. A corto di argomenti, la politica europea ha preferito stregare con il populismo piuttosto che restituire speranza e identità, anticipando gli eventi per controllarli e regolarli.

Terzo: ci consoliamo sostenendo che l’Italia è un laboratorio, ma in realtà è un’esasperazione dell’incertezza europea: un paese in cui si cambiano a ripetizione partiti e leggi elettorali, ma non le élites. Né il ricambio procede tra gli imprenditori, né va meglio tra i professionisti sottoposti anch’essi alla gerontocrazia. L’attenzione è però attratta dai politici perché sono la classe eletta, che dovrebbe seguire precise regole di ricambio. I partiti-etichetta svuotati dai militanti e in mano ad amministratori eletti e nominati e delle clientele, non garantiscono ricambio del personale e non lo formano, creando selezione avversa al merito. Manca una formazione internazionale dei nostri leader e il loro provincialismo pesa al cospetto delle problematiche europee o di quelle imposte dai mercati globali. Una strategia di lungo periodo per ricostruire i partiti dovrà garantire formazione e ricambio contro le incrostazioni clientelari che si creano quando si perseguono interessi autoreferenziali e il modello del politico “dalla culla alla bara”.

Quarto: i partiti personalizzati, professionalizzati, finanziarizzati e mediatizzati si curano con un rinnovato interesse dei cittadini alla polis, con la voice e non l’exit. Non a caso, il malessere democratico si misura con tre indicatori, da vent’anni in caduta libera: iscrizione ai partiti, indice di fiducia in essi, elettori votanti. L’indifferenza sociale è stata incoraggiata dall’informazione mediale che ha disincentivato la partecipazione, ma il fenomeno era stato già intuito da Durkheim con la formula dell'”integrazione senza consenso” propria delle società moderne caratterizzate da individualismo conformista e lealtà passiva. Altro che antipolitica: le tre crisi (politica, economica e morale) derivano non da protesta o intolleranza, ma da indifferenza e defezione sociale. Il rischio si chiama democrazia “minima” per cui gli interessi dei rappresentanti si specchiano nel disinteresse dei rappresentati. Tra i cittadini latita la disponibilità all’ impegno civico di occupare gli spazi che la democrazia offre. Tra le élites, manca la volontà di coinvolgere cittadinanza attiva e competente, che i partiti dovrebbero formare e selezionare per garantire un ricambio regolato. A causa di questo doppio deficit – lo abbiamo imparato dai 150 anni di storia unitaria – ogni 20-30 anni l’albero viene scosso e chi è sopra cade a terra tra mille risentimenti.

Il Sole 24 Ore 29.04.12