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"Nello show gli stessi argomenti di Berlusconi", di Massimo Adinolfi

Il mondo della giustizia non funziona, dice l’imputato Beppe Grillo. E ha ragione: chi sosterrebbe il contrario, che nei tribunali tutto fila liscio? Chi non inorridirebbe di fronte alle pile di faldoni che circolano barcollando sui carrelli, portati in giro per le aule di giustizia come moribondi su barrelle d’ospedale? Di fronte alle carceri che scoppiano, ai tempi biblici dei processi, alle piogge di prescrizioni: chi direbbe diversamente? Dunque, c’è poco da fare: non funziona. E l’imputato Grillo lo dice a voce alta. Alla sua maniera. In fondo, il formato è lo stesso dai tempi di «Te la do io l’America»: ora vado io in America e ti faccio vedere che razza di strambo paese all’incontrario è. Questa era la formula comica del programma televisivo che Grillo condussem negli anni ’80. Ed è esattamente allo stesso modo che funzionano le sue attuali performance: non più in televisione, ma sul web o in piazza (e, ieri, direttamente dal palazzo di giustizia). Grillo è lì che finalmente te la dà a vedere. E quel che ti dà a vedere è essenziale che sia paradossale, una roba che solo in un altro mondo, come l’America o il Brasile, o solo in quel mondo rovesciato che è l’Italia. Dove si
buttano milioni per una firma mancante sotto un pezzo di carta, o dove gli assassini sono a piede libero mentre i poveri cristi finiscono in manette. Così è andata anche ieri, durante il processo ai No-Tav. L’imputato Grillo ha criticato gli sprechi, le lentezze, le assoluzioni, le discrezionalità: tutto. È giunto persino a chiedersi perché, invece di giudici umani e processi
disumani, non si faccia tutto con le macchine, come se le sentenze potessero venir fuori dalle menti dei giudici al modo in cui un
distributore automatico espelle una Sprite. Che la valutazione di
giustizia richieda una finesse che le macchine non hanno evidentemente non lo sfiora, e non gli ci vuol molto a capovolgere quelle finesse in volgare grossolanità. Ma il punto vero è un altro. Grillo non è toccato nemmeno dal fatto di usare gli stessi
argomenti adoperati da Berlusconi o dai suoi avvocati; d’altra parte, è vero che se un argomento è buono non diventa cattivo per il solo fatto che passa da una bocca all’altra. Ma come Berlusconi non sono solo gli argomenti. Certo, Grillo non ha ancora detto che i magistrati sono tutti comunisti, ma è chiaro che per lui sono tutti qualcosa: sono per esempio tutti casta, tutti ceto privilegiato, tutti anime morte: che non li chiami comunisti o toghe rosse, forse, cambia il modo di mettere a fuoco il bersaglio, non la maniera di colpirlo.
No, il punto è che Grillo, come Berlusconi, parla nella condizione di imputato. Di bazzecole, a cospetto del Cavaliere, ma sta il fatto che ha atteso di essere imputato per fare lo show in tribunale. Per dire «te la dò io la giustizia» ha aspettato di finirci dentro, così la macchina retorica funziona meglio. Non è dunque come Berlusconi, che parla per delegittimare le procure e
chiamarsi fuori. Lui ci vuole stare dentro, ma sempre per
una finalità diversa dalla difesa del suo diritto, o del diritto in
genere. Cioè per gridare più forte e far saltare tutti sulle sedie, mica per promuovere una civile discussione. Ogni volta che Grillo parla si sente un perentorio (e reazionario, posso dirlo?): basta con le discussioni. In verità, un altro, che finì sotto processo, disse una volta: «Oportet ut scandala eveniant». Ma era Gesù Cristo, e anche se a volte per la barba o per altro viene il sospetto che Grillo si senta come lui, non pare che sia la stessa cosa. Proprio no.

L’Unità 04.05.12

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