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"Il dramma dei suicidi oltre le cifre" di Mario Calabresi

La nostra paura del futuro aumenta ogni giorno, c’è una continua perdita di fiducia e di speranza e l’attenzione degli italiani è calamitata dalle notizie di chi si toglie la vita, le più lette in assoluto nelle ultime settimane. Un lettore di Modena, rappresentativo delle centinaia di e-mail che arrivano qui al giornale da settimane, mi scrive angosciato che «suicidi per motivi economici, fallimenti di impresa e debiti anche fiscali, stanno aumentando di giorno in giorno in maniera preoccupante». Il presidente del Consiglio e il primo partito della sua maggioranza duellano sulle responsabilità della crisi e sulle sue conseguenze, evitando solo di pronunciare la parola suicidio, di gettarsi addosso l’accusa più grave e infamante.

Ma stiamo discutendo di un fenomeno davvero nuovo, che non conoscevamo prima, esploso soltanto negli ultimi tre mesi, o di qualcosa che per anni non abbiamo visto e abbiamo sottovalutato? I numeri sembrano dare ragione alla seconda ipotesi e ci dicono quanto la nostra percezione dei fatti possa cambiare influenzata dalle nostre ansie e dall’enfasi con cui le notizie vengono date sui mezzi di informazione.

Se guardiamo al 2010, l’anno più vicino su cui ci siano cifre ufficiali, scopriamo con spavento che ci sono stati 3048 suicidi, di cui, secondo l’Istat, 187 «per motivazioni economiche». Uno ogni due giorni, una frequenza apparentemente maggiore di quella che abbiamo registrato dall’inizio dell’anno (nel 2012 i casi di questo tipo sembrerebbero essere una quarantina). Secondo l’istituto di ricerche economiche e sociali, l’Eures, le morti dettate da ragioni di fallimenti, debiti e disoccupazione nel 2010 erano addirittura una al giorno. La prima cosa che mi colpisce è il silenzio che abbiamo dedicato a queste persone, li abbiamo lasciati andare via senza accorgercene, senza nemmeno saperlo, senza che nessuno si stringesse alle loro famiglie. Alcuni di loro forse hanno conquistato una notizia nelle pagine locali, per molti altri solo il silenzio della sepoltura.

Tutta colpa dell’informazione, che prima ha sottovalutato e adesso gonfia? Ma se i suicidi non sono aumentati, allora cosa sta succedendo? La risposta, come quelle che sono davvero credibili, non si può racchiudere in una parola ma ha più motivazioni.

La prima si può spiegare leggendo l’ultima notizia arrivata ieri: a Pompei un imprenditore edile si è sparato nel parcheggio del Santuario lasciando una lettera di scuse per la famiglia e una di accuse contro Equitalia.

Ecco che cosa è cambiato: prima il suicidio, che è innanzitutto un dramma personale e familiare si teneva nascosto, c’era la vergogna di pubblicizzarlo, il dolore era muto e il silenzio totale. Perfino i giornali hanno sempre mostrato pudore. C’era poi nella nostra tradizione e nella dottrina cattolica il problema dei funerali, che potevano essere negati a chi si toglie la vita.

Oggi, invece, chi sceglie questo gesto estremo e senza ritorno lasciando lettere di denuncia fa sentire la rabbia del proprio gesto, lo trasforma in un atto di accusa. E le famiglie non nascondono più ciò che è successo, alcune hanno preso il coraggio di parlare, di aprire le porte ai giornalisti, di fare perfino manifestazioni pubbliche. Lo fanno perché sentono che la società può comprendere e di certo non accuserà e non metterà all’indice e nessuno si sognerà di negare esequie in Chiesa.

Ma soprattutto tutti noi siamo più attenti e ricettivi perché la crisi tocca tutti, almeno a livello di ansie e insicurezze, oggi è il malessere diffuso a fare da amplificatore.

Non si può però nascondere il rischio insito in questa mediatizzazione, il pericolo di stimolare un effetto emulazione. Due giorni fa sul sito Internet del mensile Wired è apparsa un’analisi molto ben fatta, in cui il direttore del dipartimento di Neuroscienze dell’Ospedale Fatebenefratelli di Milano Claudio Mencacci, spiegava come «Studi epidemiologici internazionali dimostrano con certezza che le notizie dei suicidi da crisi economica, se presentate in modo sensazionalistico, inducono altri suicidi, innescando un pericoloso effetto domino».

Così se anche i numeri ci possono dimostrare che non siamo di fronte ad un fenomeno nuovo, è fondamentale e urgente trattarlo con cautela per non farlo esplodere ulteriormente. La prima responsabilità di chi fa informazione è di non far crescere una retorica che stimoli e giustifichi i gesti estremi.

Ma, come ha scritto su queste pagine Massimo Gramellini, è tempo che il governo e le forze politiche se ne facciano carico, agiscano per creare condizioni di speranza per il futuro, prospettive di crescita, e mettano in campo politiche nuove capaci di arginare il fenomeno. Perché se è vero che il numero dei suicidi non è aumentato è altrettanto vero che adesso sappiamo: conosciamo la disperazione, è sotto i nostri occhi ogni giorno e non possiamo più avere alibi o far finta di non vedere. Gli italiani hanno bisogno di un traguardo, di immaginare la luce in fondo al tunnel.

La soluzione non è certo quella di cercare colpevoli, soprattutto non nelle file di chi si limita a far rispettare le leggi che sono uguali per tutti e non accettano favoritismi, ma dovrebbe essere quella di cercare responsabili. A ogni livello: nel governo, nella politica, nell’amministrazione delle tasse e delle riscossioni, nelle banche, ma anche nei giornali, come nelle famiglie e in ogni comunità. Abbiamo bisogno di rigore ma anche di umanità e di capacità di comprendere e distinguere.

Tutto questo deve essere fatto non solo per chi è adulto e segnato dalla crisi, ma anche per le generazioni più giovani che stanno crescendo in un clima che nega alla radice la possibilità di costruire un Paese migliore.

Ogni volta che incontro un gruppo di ragazzi di una scuola o universitari che si affacciano al mondo del lavoro faccio sempre la stessa domanda: «Se vi dico la parola futuro cosa pensate?». Non ce n’è uno che mi dia una risposta positiva, incoraggiante o colorata. Le parole che sento ripetere sono: «Paura, incertezza, precarietà». I più intraprendenti mi dicono che se ne vogliono andare all’estero, che fuggiranno appena sarà possibile.

Questo gli è stato trasmesso dalla televisione, dalla scuola, dalle famiglie e questo pessimismo è diventato il loro cibo quotidiano. È chiaro che non ce lo possiamo permettere, non possiamo crescere una generazione nel messaggio che dal fondo di questo pozzo non si riemergerà mai.

La passione e la fiducia nella vita sono l’ingrediente fondamentale con cui si concima il futuro, non esistono altre soluzioni che ci possano salvare dalla disperazione.

La Stampa 11.05.12