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"Migliorata la riforma sul lavoro, ma si può fare di più", di Renata Gottardi

La riforma Fornero sul mercato del lavoro sembra fare passi in avanti. Con un approccio che somiglia molto al positivo metodo di lavoro del Parlamento europeo, sono stati presentati in Senato pacchetti di emendamenti concordati tra i due relatori (Castro del Pdl e Treu del Pd), con conseguente ritiro di molti di quelli che erano stati finora presentati, al fine di ottenere «il massimo possibile di convergenza da parte delle forze parlamentari». Si accentua così il carattere compromissorio (in senso positivo)
della riforma, con modifiche che sembrano rispondere al bilanciamento tra esigenze dei datori di lavoro, da un lato, e tutela dei lavoratori, dall’altro, con un bilanciamento realizzato nel complesso e non materia per materia o istituto per istituto.
Proviamo a verificare questo assunto su due punti significativi, nella parte dedicata alle tipologie contrattuali, altrimenti conosciuta come intervento di riduzione della flessibilità in entrata. Nel contratto a tempo determinato, va sicuramente a favore dei datori di lavoro allungare da sei mesi a un anno la durata possibile del contratto stipulato senza indicazione dei motivi (la cosiddetta «a-causalità»). Il risultato finale, su
questa parte, mi pare evidente: la liberalizzazione del primo contratto a termine fino a un anno aumenta la convenienza da parte del datore di lavoro a continuare a far entrare e uscire i lavoratori a termine, senza vincoli di sorta. È prevista una alternativa: i contratti collettivi – anche di livello aziendale, ma stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale – possono inserire una franchigia generale, per la a-causalità dei contratti a termine, pari al 6% dei lavoratori occupati nell’unità produttiva. Mi pare un sostegno all’autonomia collettiva più apparente che reale, dato che sposta sul sindacato la responsabilità della scelta, vincolandola nei modi e nei tempi. Ogni volta che si affidano competenze negoziali al sindacato in sulla precarietà si corre il rischio di una corresponsabilizzazione, che potrebbe essere letta dai lavoratori non tanto come contenimento del danno, ma come acquiescenza.
Del resto, è vero che togliere l’obbligo di motivazione significa
rimuovere una sorta di «foglia di fico», dati i margini amplissimi
esistenti sull’identificazione delle esigenze aziendali, ma ricordiamoci che solo a fronte di motivazioni si può andare dal giudice per chiedere che ne sia valutata l’infondatezza. Nel
contratto di lavoro a progetto, va a protezione dei lavoratori
l’inserimento della giusta retribuzione. La modifica proposta
chiede che il compenso dei collaboratori a progetto sia adeguato
alla quantità e qualità del lavoro eseguito e non possa essere inferiore, in proporzione alla durata del contratto, a un importo annuo stabilito periodicamente con decreto del ministro del lavoro, sentite le parti sociali. I parametri di riferimento sono: da un lato, gli emolumenti per prestazioni analoghe nel lavoro
autonomo e, dall’altro, le retribuzioni dei contratti collettivi per i lavoratori subordinati.
Il principio è sacrosanto. La formulazione lascia a desiderare e
potrebbe essere forse ulteriormente integrata. Sarebbe, in particolare, opportuno evitare di troncare il riferimento alla proporzionalità con la quantità e qualità del lavoro, dato che
nella Costituzione si aggiunge il secondo e inscindibile vincolo della sufficienza, per garantire al lavoratore un’esistenza libera e dignitosa. Perché non richiamare anche, se non indirettamente, la sufficienza? E perché utilizzare la via del decreto, che per di più prende i suoi riferimenti un po’ dal lavoro autonomo e un po’ dal lavoro subordinato? Una decina d’anni fa, quando l’allora Pds ha presentato la sua proposta di Carta dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori, era previsto il diritto all’equo compenso e cioè a un compenso proporzionato alla quantità e qualità del lavoro svolto e sufficiente per un’esistenza libera e dignitosa secondo quanto stabilito negli accordi collettivi applicabili o comunque in uso per prestazioni analoghe e comparabili.
Non è detto che questa sia la formulazione ideale, ma sicuramente
sarebbe più rispettosa dell’autonomia collettiva.

l’Unità 12.05.12