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"Che senso ha morire per il lavoro", di Ilvo Diamanti

Viviamo tempi violenti, pervasi, come ha affermato ieri Mario Monti, da una «profonda tensione sociale». Di cui è indice – e fattore – il riemergere del terrorismo. Che usa la vita e ancor più la morte come un messaggio. Uno spot da proiettare nel circuito – e nel circo – mediatico. Senza il quale e al di fuori del quale: nulla esiste. Lo stesso avviene, d´altronde, nel mondo del lavoro. Dove togliersi la vita fa notizia. Molto più che perderla lavorando. I morti sul lavoro, infatti, sono un fenomeno antico, esteso e in costante aumento. (Ce lo rammenta la preziosa opera di documentazione e informazione svolta dall´Osservatorio Indipendente di Bologna di Carlo Soricelli). E, tuttavia, quasi invisibile, se non in casi eccezionali – quando muoiono in tanti in un colpo solo. Come nel caso della Thyssen Krupp di Torino, nel 2007.
I suicidi, invece, suscitano grande attenzione ed emozione, in questi tempi. I media li inseguono, giorno dopo giorno. Offrono l´immagine di un´onda anomala e senza fine. Anche se i dati raccontano una storia diversa. Infatti, come osserva Marzio Barbagli, sulla base delle statistiche dell´Istat: «I suicidi in questa categoria sociale c´erano anche negli anni passati, più o meno con la stessa frequenza». Anzi, dal 2009 ad oggi, sarebbero diminuiti. Tuttavia, la visibilità mediale di un fenomeno non è mai casuale. Basti pensare allo spazio riservato dai media alla criminalità comune, trattata come un serial, sceneggiato e riprodotto dai Tg e dai talk del pomeriggio e della sera. Senza soluzione di continuità. Al di là di ogni variazione statistica del fenomeno, riflette, soprattutto, la passione dei media per la cronaca nera tradotta in “romanzo criminale”. Basti pensare, ancora, allo spazio riservato dall´informazione all´immigrazione, negli anni fra il 2007 e il 2009. In seguito ridimensionato drasticamente. Una tendenza dettata da ragioni – e pressioni – politiche più che da mutamenti quantitativi dei flussi migratori. Penso, invece, che la visibilità riservata ai suicidi, in questa fase, oltre che dalla drammaticità dei singoli episodi, più che da ragioni “politiche”, sia dettata – e moltiplicata – dall´angoscia prodotta dalla crisi economica. Il principale e vero motivo della “tensione sociale”, a cui ha fatto riferimento il Presidente del Consiglio.
Per riprendere i dati dell´Osservatorio sull´In-Sicurezza (curato da Demos, l´Osservatorio di Pavia e la Fondazione Unipolis), le “paure economiche” sono considerate la principale emergenza dal 60% degli italiani (aprile 2012). Un sentimento degenerato in pochi anni. Insieme al senso di declino sociale. Rammentiamo: nel 2005 la quota di persone che si “sentiva” di classe sociale bassa o medio-bassa era il 25%. Oggi il 53%.
I suicidi dei lavoratori e ancor più dei piccoli imprenditori “drammatizzano”, in senso emotivo ma anche narrativo, questa “tensione sociale”. Sul piano professionale e geo-economico. Lo “sciame dei suicidi” ri-prodotto dalle cronache, infatti, sembra inseguire le zone forti dello sviluppo degli ultimi decenni. Le province del Nordest e, in generale, del Nord. Le aree che, dopo gli anni Settanta, hanno conosciuto una crescita economica violenta. Dove si è affermato una sorta di “capitalismo dell´uomo qualunque”, come l´ha definito Giorgio Lago. Un modello “postfordista” (per citare Arnaldo Bagnasco), che ha coinvolto e mobilitato la società in modo estensivo. Perché, a differenza di altrove, le aspettative di reddito e di carriera non erano affidate al lavoro dipendente – nella grande fabbrica o nel pubblico impiego. Ma al lavoro in-dipendente. Al passaggio da operaio ad autonomo. “Paroni a casa nostra”, in Veneto, non significa solo indipendenza territoriale. Ma vocazione all´indipendenza personale e familiare. Gran parte delle aziende, d´altronde, sono sorte e si sono sviluppate attraverso rapporti personali. Tra persone che si conoscono e si frequentano, prima durante e dopo il lavoro. Aspirano a migliorare la propria posizione e condizione, con lo stesso obiettivo. Diventando, a loro volta, “paroni a casa propria”. Il passaggio da operaio a piccolo imprenditore, in questo mondo, è breve. La fatica, il rischio: gli stessi. Cambia il ruolo sociale. Come rammenta la vicenda dell´artigiano-muratore, raccontata da Gigi Copiello, che sul furgone da lavoro scrive: Bruno da Cittadella, dottore in malta. (Titolo del libro appena uscito per Marsilio). Cioè, artigiano, ma anche specialista. Per usare un termine di moda: tecnico.
Il successo leghista, negli anni Novanta, in queste zone e fra queste categorie professionali, si spiega anche così. Con la capacità della Lega di dare visibilità e voce a soggetti e territori divenuti, in breve, economicamente centrali, ma ancora politicamente periferici. Guardati – anche sui media – con sufficienza e ironia.
L´enfasi suscitata – oggi molto più di ieri – dai suicidi dei piccoli imprenditori e nelle aree di piccola impresa riflette la sensazione, per alcuni versi la paura, che questo modello sia in declino. Oltre metà degli italiani, nel 2006, ambiva, per sé e i propri figli, a un “lavoro in proprio o da libero professionista”. Oggi questa componente è scesa a poco più di un terzo (Demos-Coop, aprile 2012).
Le cause “materiali”: la disoccupazione, il peso schiacciante delle tasse e la caduta dei mercati, dunque, alimenta sicuramente l´angoscia sociale che si respira. Ma c´è di più. C´è la paura del baricentro sociale, un tempo imperniato sulla grande fabbrica, spostatosi, poi, sul lavoro autonomo e sulla piccola impresa. Un modello fondato, comunque: sul “lavoro”. Riferimento dell´identità e della coesione sociale, prima che fonte di reddito. Mi torna in mente la reazione di Giorgio Lago a un articolo nel quale, dieci anni fa, registravo la crescente stanchezza fra i lavoratori e i piccoli imprenditori del Nordest. Alla ricerca di altri motivi di soddisfazione, oltre il lavoro. Rispose, allora, Lago (sul Mattino di Padova): «Se sono stanchi si riposino. Vadano a dormire prima, la sera. E poi riprendano il lavoro. Perché senza il lavoro, senza la fatica: non hanno speranza. Non hanno futuro».
È questo che oggi rende così visibile ciò che fino a ieri non lo era. “Morire per il lavoro”. In qualche misura, poteva essere un prezzo accettato e perfino necessario, per una civiltà laburista.
Ma se il lavoro e la fatica non bastano più: cosa terrà insieme la società? E, prima ancora, che “senso” ha la vita?

La Repubblica 14.05.12