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Africa, il potere è donna "Salveremo il continente" di Pietro Veronese

Crescono le figure di riferimento femminili all´interno della società Capi di Stato, economiste, premi Nobel: vincono sfidando i pregiudizi. In Mali c´è una nomade a tessere le fila della rivolta dei Tuareg: la sua casa è diventata il luogo centrale della politica del Paese. Per ognuna di loro raggiungere la vetta è stata una battaglia contro culture conservatrici e patriarcali. In Africa è l´ora delle matriarche. Donne leader, donne che comandano, figure di riferimento della società. Donne di potere, anche. In Liberia è stata rieletta per un secondo mandato di sei anni la presidente Ellen Johnson Sirleaf, prima africana della storia a capo di uno Stato. In Malawi le si affianca adesso Joyce Banda, succeduta al presidente Mutharika, stroncato da un infarto. Il mese scorso, con una mossa anch´essa senza precedenti storici, i Paesi in via di sviluppo hanno presentato un loro candidato alla presidenza della Banca Mondiale. L´iniziativa ha avuto vita breve e ancora una volta, secondo tradizione, la poltrona è andata al nome indicato degli Stati Uniti. Resta agli atti però che quel candidato era una donna, un´africana: la nigeriana Ngozi Okonjo-Iweala, ministro delle Finanze del suo Paese. Non sarà presidente della World Bank, ma resta una delle personalità politiche più potenti del continente.
Perfino tra i Tuareg, la cui cultura tradizionale è considerata tra le più patriarcali e maschiliste d´Africa, spicca – unica donna – la figura di Nina Wallet Intalou, bella e fiera dirigente del Movimento di liberazione nazionale dell´Azawad, che ha proclamato di recente una repubblica indipendente nel nord del Mali. In questo periodo, riferisce un´inviata di Le Monde da Nouakchott, la capitale mauritana, la casa di Nina è un crocevia di nazionalisti Tuareg e diplomatici europei. Lei tesse le fila. È una donna celebre e chiacchierata, alla quale sono stati attribuiti in passato numerosi amanti altolocati: tra di essi il libico Gheddafi, illazione che Nina smentisce con sdegno.
Non manca, in questo pantheon femminile africano, l´alloro del Nobel per la Pace. Nel 2011 ha incoronato tre donne, due delle quali – oltre alla yemenita Tawakkul Karman – sono africane: la Johnson Sirleaf e Leymah Gbowee, militante pacifista, anche lei liberiana. Erano state precedute nel 2004 dalla keniana Wangari Maathai, recentemente scomparsa.
La nostra visione dell´Africa fa molta fatica ad emanciparsi dagli stereotipi; ma quando si tratta di donne questi luoghi comuni sono a loro volta confusi e contraddittori. Sappiamo infatti che quasi ovunque nella società africana la donna è relegata in una posizione subalterna, subordinata, sottomessa, anche se un po´ ovunque c´è chi si ribella contro questo stato di cose. Ma sappiamo anche che la donna è la forza trainante della società e dell´economia, che il lavoro agricolo è quasi sempre affidato a lei, così come il piccolo commercio, così come la sussistenza delle famiglie rurali, che costituiscono la stragrande maggioranza degli africani: sono le donne – e le ragazze – a raccogliere la legna, a trasportare l´acqua, a cucinare, ad accudire i piccoli. Senza il lavoro delle donne l´Africa si fermerebbe.
Non è quindi sorprendente che persone come la Johnson Sirleaf, Joyce Banda o le altre si siano distinte negli anni all´interno delle loro società, come attiviste, militanti, professioniste; ma quello che è straordinario è che siano riuscite a primeggiare, ad assurgere a posizioni di eminenza assoluta. È stata, per ciascuna di loro, una battaglia. Contro pregiudizi, mariti violenti, superiori che ne hanno sfruttato il carisma tentando poi di ricacciarle nell´anonimato della sconfitta; e anche contro la solitudine e le debolezze personali (Leymah Gbowee ad esempio non fa mistero della sua lotta per liberarsi dalla dipendenza dall´alcol); contro la devastante fatica di essere insieme buone madri e protagoniste della scena pubblica; contro l´impegno di doversi sempre dimostrare all´altezza “malgrado” il fatto di essere donne.
I lettori italiani hanno a disposizione da pochi giorni l´autobiografia della capofila di questa piccola ma illustre, e crescente, schiera di matriarche: Un giorno sarai grande, di Ellen Johnson Sirleaf (traduzione dall´inglese di Francesco Regalzi, Add editore, 448 pagine, 18 euro). È un libro nel quale si avverte, qui e là, che è stato scritto con finalità politiche da una leader che esercita tuttora responsabilità di statista: è, in certi passaggi, apologetico. Ma nell´insieme è un libro che si divora come un romanzo, sia per le sconvolgenti vicende politiche della Liberia, segnate a partire dal 1989 da due devastanti guerre civili; sia per la storia personale della protagonista e della sua lotta per sfuggire alla sorte che la voleva confinata per sempre nel ruolo sacrificale di moglie e di madre: sposa a 17 anni, madre di quattro maschi prima di compierne 23. Racconta la Sirleaf che quando era nata da pochi giorni «un vecchio saggio» predisse che un giorno «sarebbe stata grande». L´aneddoto rimase oggetto di scherzi e di battute nel lessico famigliare per anni, quando nulla lasciava presagire il luminoso destino di Ellen. Eppure il vecchio saggio aveva visto giusto. Morale: donne africane, la vostra fortuna dipende da voi.

La Repubblica 15.05.12