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"Il compito della sinistra", di Alfredo Reichlin

La crisi si aggrava ma noi ne usciremo. Comincio così. Con un sentimento, nonostante tutto di fiducia. Tutto è molto difficile. Ma se vado alla sostanza delle cose vedo che una uscita da destra democratica, di stampo europeo, non esiste. Una destra può anche vincere ma sarebbe solo un esito catastrofico della crisi italiana. Si aprirebbe una lotta tra vecchi e nuovi avventurieri sostenuti dall’agitazione sempre più demagogica e populista delle varie TV contro i partiti. Assisteremo non solo all’impoverimento del Paese (in una certa misura e per qualche tempo inevitabile) ma alla sua disarticolazione: sociale e territoriale. Il tramonto dell’Italia come grande nazione.
Sulle nostre spalle pesa, quindi, una responsabilità enorme. Ma è proprio il bisogno di unità della nazione, ed è la domanda di Europa che colloca il Pd al centro della situazione.
Sono le cose che chiedono un nuovo grande patto sociale e una riscossa civile come la condizione per voltare pagina. Ma noi siamo all’altezza di questo compito? Riusciamo a farci percepire come “la speranza”, cioè come la cosa di cui questo paese ha un disperato bisogno: di non cedere ai rancori e alla paura per credere invece che cambiare è possibile? Questo io mi chiedo e mi convinco sempre di più che occorre dare battaglia, anche dentro il Pd, per uscire dalle vecchie logiche di potere e dare un senso alla politica in quanto possibilità degli uomini di uscire dalla passività e di influire sulle sorti della propria vita. E quindi, anche per contare qualcosa nel mondo.
Non mi nascondo che i mesi che stanno davanti a noi saranno difficilissimi, forse drammatici. Ma mi rifiuto di inseguire solo gli “spread”. Voglio cominciare a chiamare le cose con il loro nome. Chi sono questi misteriosi mercati? Io non credo che sbagliavamo quando cominciammo noi per primi a parlare molto tempo fa su queste colonne della grande crisi economica dell’Occidente come della rottura dell’ “ordine” mondiale. Un “ordine” non solo economico ma politico e anche, se non soprattutto, intellettuale e morale. Non voglio ripetere cose già dette e ridette sulla finanza. È sempre più chiaro che fu fatale la decisione della destra anglo-americana di porre fine al cosiddetto compromesso socialdemocratico e di affidare alle logiche dei mercati finanziari il governo delle società umane. Si è visto il risultato. I mercati finanziari sono “ciechi”. La loro natura è speculativa. Vedono solo ciò che si può guadagnare nel breve periodo. Prendi i soldi e scappa. Si spostano nel mondo con un “clic” sul computer, in pochi secondi. La sorte di una grande e antica storia come quella del popolo greco, oppure il fatto che per mettere in piedi una fabbrica ci vogliono anni, tutto questo non è affare dei mercati finanziari. Naturalmente, sto semplificando. So benissimo che senza la finanza, gli imprenditori e gli Stati non possono nemmeno fare progetti per il lungo periodo. So bene che sono serviti grandi capitali per finanziare l’esplosivo sviluppo del mondo arretrato. Conosco i costi giganteschi della rivoluzione scientifica in atto: il digitale, l’informazione. Non sono un “indignado” che demonizza il ruolo della finanza.
So tutto questo. Ma ciò che io penso è altro. Penso che occorre allargare il campo della riflessione. Perché ciò che ormai sta venendo in discussione non è solo un problema economico. Dietro i meccanismi degli “spread” c’è ben altro. E io credo che sia arrivato il momento di chiamare le cose con il loro nome. Incombe su tutto questo io credo la formazione di un potere quale non si era mai visto così grande dopo la rivoluzione francese e la nascita del Terzo Stato, cioè della borghesia moderna. Questo è il dato. Cito solo un piccolo fatto italiano. Qualcuno denunciava gli stipendi troppo alti della tecnocrazia italiana e citava il manager Tronchetti-Provera il quale guadagnerebbe una cifra annua corrispondente a 60mila euro al giorno. Il Tronchetti freddamente precisò che si trattava di circa la metà. Ma il punto non è questo anche perché c’è gente che guadagna molto di più. È la domanda sul tipo di società in cui viviamo. La grande maggioranza degli italiani guadagna poco più di mille euro al mese. Quindi 30-35 euro al giorno. Quindi 30 non contro 300 ma contro 30.000. Mi chiedo: dopo i grandi sultani dell’Oriente e i grandi principi europei prima della rivoluzione francese e dalla nascita dello Stato moderno si erano mai viste distanze così grandi?
Non sto sollevando un problema di giustizia. Sto cercando di capire cosa sia il sistema attuale. È il capitalismo che abbiamo conosciuto fino a ieri? Il capitalismo, dopotutto, è stato una civiltà, si è retto anche su un compromesso sociale. Certo, è stato lo sfruttamento del lavoro ma, insieme con esso, la formazione della società del benessere. È stato la più grande macchina per la ricchezza che ha consentito in due secoli di fare molto di più che nei ventimila anni precedenti. Questo è stato, con tutte le sue ingiustizie ma anche le sue conquiste di libertà.
Adesso siamo di fronte a un’altra cosa. Siamo alla crisi di questa civiltà: la civiltà del lavoro umano e della valorizzazione delle capacità creative dell’imprenditore. Siamo alla riduzione della ricchezza al denaro. Ma un denaro fasullo fatto col denaro. Siamo al fatto che il mondo è stato inondato da una moneta fittizia la cui massa è ormai diventata tale da superare di nove volte la produzione della ricchezza mondiale. Chi paga? Devo ripeterlo perché è proprio così: l’economia di carta si sta mangiando l’economia reale.
La situazione è drammatica ma anche molto semplice. È chiaro che questo sistema non è in grado di dare un futuro al mondo. Mette a rischio valori e beni essenziali. La drammatica vicenda europea è così che va letta. È su questo terreno che la democrazia moderna si sta giocando tutto. Al punto che il presidente della Consob (non un pericoloso sovversivo ma il garante della Borsa di Milano) ha tuonato contro la “dittatura” dei cosiddetti mercati finanziari e ha denunciato il fatto che questo mercati, attribuendo ogni potere decisionale a chi detiene il potere economico, stanno nei fatti vanificando il principio del suffragio universale. Caspita. Allora ho ragione io. È di potere politico che dobbiamo parlare non solo di economia. Ecco la necessità e il ruolo della politica. Bisogna alzare il tiro. Bisognerebbe immaginare l’Europa anche come un grande “fatto politico”, cioè come un fattore essenziale della lotta per una nuova civiltà del lavoro. Io è qui che vorrei vivessero i miei nipoti: nel luogo più bello e più civile del mondo. Dove l’uomo, in quanto persona, conta.
Certo, l’uscita dalla crisi economica sarà lenta e richiederà saggezza e realismo. Il nemico non sono le banche, senza le quali si ferma tutto. Ciò che è necessario è la creazione di un nuovo potere democratico capace di contrastare lo strapotere dell’oligarchia dominante. Questo è il compito della sinistra.

l’Unità 18.05.12