attualità, politica italiana

"La lunga storia dei soldi padani", di Alberto Statera

“Aja vara nagott/ Sti due fioo.” Traduzione dal dialetto lombardo: “Non valgono niente questi due ragazzi”. Umberto Bossi agli albori della carriera politica amava verseggiare in dialetto e questo è l´incipit di una sua poesia di quegli anni, che si rivela adesso lungimirante per le gesta dei suoi figli scioperati: Renzo il Trota e Riccardo, aspirante pilota detto Sfasciamacchine. Che ricevevano, tra molto d´altro, una paghetta di 5 mila euro mensili ciascuno, attinti dal finanziamento pubblico con mandati firmati dal papà. L´ode bossiana, nella libera traduzione in italiano, prosegue così: “Buttali nel laghetto/ Con le scatole vuote dei pomodori e le carte del burro/ Cinquant´anni in due non sono pochi/ I pioppi ogni otto anni sono abbattuti dal padrone”. Insieme ai due fioo, abbattuto nel laghetto tra i pomodori marci è ora finito anche il monarca napoleonico della Lega Nord, principe del reame italico del familismo amorale.
Gli sviluppi dell´inchiesta, che sembrano lasciare non molti dubbi sul fatto che il Senatùr fosse al corrente della distrazione di milioni di euro pubblici a favore suo e della sua famiglia, pongono il tema del suo rapporto con il “Dio denaro”, come egli stesso più di una volta lo ha chiamato. In questi giorni abbiamo letto sul tema molte mistificazioni dei suoi fedelissimi e anche degli oppositori interni. È vero, figlio di contadini, Bossi ha curato per decenni, ad uso del suo popolo, un´immagine plebea (canottiera, pizzeria, bar sport) e di disinteresse per la ricchezza. Ma dal denaro, in realtà, è stato sempre ossessionato, fin da quando nel 1979, medico mancato senza arte né parte, venne reclutato per attaccare cinquecento manifesti da un leader dell´Union Valdotaine. Prendiamo per buona la tesi che il suo scopo non fosse la sopravvivenza sua e della sua complicata famiglia, né l´arricchimento personale, ma il finanziamento della “causa”. Tuttavia, la deriva illegale bossiana è ormai consolidata e ben lontana nel tempo. Risale almeno a vent´anni fa, ai tempi di Tangentopoli, quando il tesoriere della Lega, Alessandro Patelli, al bar Doney, luogo topico di Roma Ladrona, riscosse una borsa di contanti provenienti dalla maxi-tangente Enimont. “Erano 200 milioni” (di lire), confessò Patelli, condendo poi la confessione con una storia incredibile: “Preoccupato tornai a Milano e li nascosi in un cassetto del mio ufficio in attesa di capire come regolarizzarli. Finché la mattina dopo mi dissero che durante la notte c´era stata un´incursione nella sede. Avevano portato via tutto, scassinando armadi e scrivanie. Denunciai il furto, ma non quello dei 200 milioni perché non avevo ancora regolarizzato il contributo. Bossi era impegnato giorno e notte nella campagna elettorale e così decisi di non dirgli niente”. Patelli offrì il petto al capo con la sua balla, divenendo una specie di eroe padano, ma il Senatùr fu poi condannato a otto mesi per finanziamento illecito. “La condanna al processo Enimont – commentò con le solite iperboli celoduriste – per me è una medaglia per una ferita di guerra”. Dopo aver gridato: “Dalle mie parti una pallottola costa solo 300 lire e se un magistrato vuol coinvolgerci nelle tangenti, sappia che la sua vita vale 300 lire”. Se non per le dimensioni della stecca, niente di diverso dalla Dc e dal Psi. Franco Rocchetta, fondatore della Liga Veneta, madre di tutte le leghe, sostiene, del resto, che allora Bossi, che già si era espresso contro il referendum sul finanziamento pubblico ai partiti, gli chiese di votare contro l´autorizzazione a procedere per Craxi.
Poi venne l´affare Credieuronord, la banca leghista fallita tra mille malversazioni, nel cui consiglio d´amministrazione figurava – per la serie tengo famiglia – anche il fratello Franco Bossi. E venne l´affare del residence Skipper, una speculazione in Croazia sua, della moglie e degli altri caporioni del Carroccio, anche questa fallita. E ancora l´acquisto della sede di via Bellerio, con 14 miliardi di lire di origine incerta, secondo Rocchetta, che dal partito fu cacciato con la moglie, come tanti altri.
Ma la vera svolta finanziaria avvenne con la Lega non più solo di lotta, ma di governo, quando la generosità pelosa di Berlusconi concesse una fideiussione personale per una linea di credito di 20 miliardi garantita dalla Banca di Roma del solito Geronzi. A quel punto, tutti liberi di arricchirsi personalmente con il berlusconismo e con il formigonismo a Milano, mentre il capo maturava la convinzione, ripetuta nei giorni scorsi, che con il surplus di soldi del finanziamento pubblico poteva fare quel che voleva, anche buttarli dalla finestra o pagare gli sfizi della sua signora e gli stravizi dei voraci fioo.
Ora Roberto Maroni annuncia che la Lega diventerà una “newco”. Impresa alquanto disperata, anche se lo zoccolo duro elettorale sembra insensibile all´antropologica cifra delinquenziale del capo, dei suoi cari e di altri dignitari padani, che via via viene alla luce. Mentre incombono nuove tempeste giudiziarie. Ad esempio, l´inchiesta milanese sulle quote latte, nella quale i magistrati ipotizzano il versamento di tangenti da parte degli allevatori che con la difesa a oltranza della Lega hanno fin qui evitato il pagamento di 350 milioni di multe comminate per lo sforamento dei limiti di produzione imposti dall´Unione europea. Oltre a cacciare i ladri, Maroni forse dovrà non solo vendere la sede di via Bellerio, ma anche cambiare il simbolo del partito, spadone compreso, che si dice che sia stato venduto a caro prezzo a Silvio Berlusconi. Davanti al notaio.

La Repubblica 18.05.12