attualità, memoria

Il giudice cittadino. La parabola professionale e umana di Giovanni Falcone di Vincenzo Vasile

Assediati dalle immagini orribili di questi giorni, sfogliamo vecchi album della memoria. Non è questa, la storia di Giovanni Falcone, che avrete letto e riletto altrove in questi giorni di tragica ricorrenza, sono flash della memoria di quando Falcone non era ancora Falcone. Nella prima pagina dell’album c’è un ragazzo che s’affaccia al portone del liceo classico Umberto, in piazza sant’Anna. Nell’intervallo si sfama con il tipico cibo da strada palermitano, il pane e panelle, vitto interclassista. Di là dal marciapiede, sfila una carrozza tirata da due cavalli, un lussuoso landò. Si intravedono all’interno della vettura, mentre escono dal loro palazzo settecentesco, dirimpetto alla scuola, una donna, la principessa di Ganci, e il figlioletto, il principe Vanni Calvello di san Vincenzo.

Il palazzo davanti al liceo
Il ragazzo con il pane e panelle, diventato magistrato, lo farà arrestare tanti anni dopo, perché il giovane aristocratico poi sarebbe diventato socio del capomafia Francesco Di Carlo, e gli avrebbe messo a disposizione persino un castello a Trabia per summit criminali in cui si programmavano affari e delitti.

Il ragazzo delle panelle, ritratto in quella nostra istantanea del nostro album immaginario, che forse non fu mai scattata, si chiama Giovanni Falcone. Figlio di una corretta e decorosa borghesia tecnico-professionale che a Palermo oggi non esiste più – suo padre, Arturo, era il direttore del Laboratorio chimico provinciale – all’Umberto i professori lo citeranno ancora negli anni scolastici avvenire come un prodigio di serietà e applicazione negli studi – soprattutto le conferenze/ lezioni sulla Costituzione del professor Franco Salvo – e anche in palestra. In bacheca, anche quando la scuola cambierà sede – è un ricordo di qualche anno dopo, di chi frequentava lo stesso liceo – rimarrà per molto tempo una sua fotografia in tuta ginnica durante un partita di pallavolo, nella quale il ragazzo sfodera un sorriso gentile. Torniamo adesso in quel palazzo rococò che fronteggia il liceo di Falcone.

A palazzo Ganci, Luchino Visconti girò la scena clou che occupa un terzo del suo Gattopardo, tratto dal romanzo di Tomasi di Lampedusa: un interminabile “ballo” che dissanguò il produttore, Goffredo Lombardo, mandando in rovina la sua Titanus, ma che al regista occorreva dilatare perché quei sontuosi ambienti, vestigia di un glorioso passato, assistono – nel romanzo e ancor di più nel film – all’irruzione di una folla di personaggi mediocri, avidi e meschini: la borghesia mafiosa.

All’epoca dei primi sopralluoghi, con l’implacabile tassametro della principessa di Ganci che tormenta il produttore esecutivo Pietro Notarianni per l’affitto a giornata della sala in cui viene girato il valzer con Claudia Cardinale Burt Lancaster e una miriade di figuranti volontari delle buone famiglie palermitane, e poi al momento degli innumerevoli dei ciak che per quindici mesi sconvolgono tutti i ceti e i quartieri di Palermo, Falcone passa le sue giornate poco lontano, all’Università centrale, Facoltà di giurisprudenza, dove si laurea proprio nel 1961 con una tesi sulla «Istruzione probatoria in diritto amministrativo».

La passionaccia per il diritto penale viene dopo, nasce sul campo. Un campo minato: per breve tempo è pretore a Niscemi, per una dozzina d’anni sostituto procuratore a Trapani, città di mafia che nasconde la sua mafiosità. Anche qui c’è una foto, anzi una telefoto dell’Ansa, datata 1976: Falcone ha la barba e i capelli lunghi come si usava, sta scendendo sul molo dell’isola di Favignana dove c’è una delle carceri di massima sicurezza. Un detenuto dei Nuclei armati proletari reclama un giudice, è lui a offrirsi.

Con sangue freddo affronta un tipo che si definisce anarchico individualista ed è armato di un coltello, due tre ore di ansia, finisce bene. Nella foto Falcone rifà quell’enigmatico sorriso. Giovanni ha appena annunciato in famiglia, stupendo tutti i componenti di un nucleo di consanguinei molto conservatore, che stavolta voterà per la sinistra progressista, cioè per le liste del Pci.

Nel 1979 il sorriso di Falcone ce lo troviamo al naturale, in una specie di cerimonia di presentazione che Rocco Chinnici capo dell’ufficio istruzione fa ai cronisti giudiziari, del suo nuovo pool, anzi dei suoi nuovi “pupilli”, c’è Peppino Di Lello, che è stato anche sindaco per una formazione di sinistra in un comune abruzzese, c’è Falcone, che viene da Trapani… In verità, da Trapani – poi sapremo – Falcone è dovuto andar via, chiedendo il trasferimento per prevenire un incredibile provvedimento “di ufficio” per incompatibilità ambientale generato da una lettera anonima riguardante la sua situazione familiare – sta divorziando dalla moglie – e che il procuratore generale ha trasmesso al Csm. A Chinnici lo stesso procuratore subito raccomanderà di sommergere la scrivania di Giovanni di bagatelle. In modo da distoglierlo da crimini del potere e di alta mafia che l’avevano eccessivamente impegnato a Trapani, con tutto il seguito conseguente di veleni. Un avvocato specializzato nella difesa di grossi latitanti al primo mandato di cattura con la sua firma, prende a soprannominarlo ’u farcuni, il falcone, come se la bestia rapace fosse il giudice e non la mafia. Poi si aggiungerà al gruppo Paolo Borsellino, che invece è un giovane magistrato dichiaratamente di destra, ed è sposato con la figlia di un giudice di alto grado e di vecchio stampo: e poi sapremo che Paolo è un amico di infanzia di Giovanni, nato a due passi, in via Alloro, altra famiglia piccolo borghese molto per bene, farmacisti. Al circolo giovanile del quartiere della Kalsa ogni tanto i due futuri protagonisti della battaglia antimafia da ragazzi giocavano a calcetto-balilla con un coetaneo che tra qualche anno interrogheranno, don Masino Spadaro, contrabbandiere di sigarette divenuto capo di Cosa Nostra, impelagato nel grande affare della droga. Uno che li provocherà, in manette: «…sono l’Agnelli di Palermo, do lavoro a ventimila persone».
L’IMPERMEABILEIMBOTTITO
Ci deve esser da qualche parte una foto di Chinnici che in quei giorni regala a l’Unità uno scoop, che il giornale non capì e non valorizzò abbastanza. Il ministro della giustizia Clelio Darida, uomo di fiducia di Andreotti – con tanto di bigliettino da controfirmare per ricevuta – ha mandato ai giudici palermitani più impegnati un “capo d’abbigliamento” che – scrive – dovrebbe essere gradito, un impermeabile imbottito, spacciato dal ministero per efficace protezione antiproiettile. Falcone con quel suo sorriso ironico prende l’impermeabile e porta gli agenti di scorta che ha appena ottenuto dopo un lungo tira e molla in campagna a provare: Montinaro e Di Cillio due pugliesi che si affezioneranno a Giovanni rimanendo con lui fino alla morte, sforacchiano a pistolettate come un colabrodo il soprabito. Chinnici filosofeggia
con parole amare: lo prendo come un regalo, in vista della stagione delle piogge. A Falcone e Borsellino, Rocco Chinnici ha affidato la gestione e lo sviluppo di un rapporto dei carabinieri
che durante la gestione precedente è stato insabbiato (doveva prendere quello che ora è il suo posto Cesare Terranova, ex giudice istruttore a Palermo, ex parlamentare della sinistra indipendente, trucidato alla vigilia del suo ritorno al palazzo di
giustizia, nell’83 Chinnici verrà massacrato da un’autobomba). Ne vien fuori un’inchiesta che prende di petto, tra le altre, le famiglie mafiose che hanno ospitato proprio in quei mesi il bancarottiere italo americano Michele Sindona a Palermo, in un viaggio che viene spacciato per sequestro, ma che nasconde trame golpiste e ricatti politico-finanziari.
Falcone una mattina pazientemente ci spiega: li ho individuati uno per uno, seguendo il filo degli assegni bancari, dei patrimoni, delle compravendite. Consegna ai pochi cronisti locali che seguono
questi argomenti fuori moda negli anni di piombo, un malloppo di migliaia di pagine, l’ordinanza di rinvio a giudizio del processo mafia e droga (Spatola, Gambino, Inserillo). A chi gli chiede anticipazioni di eventuali prossimi sviluppi indica la pagina di un’intercettazione in cui rispettabili professionisti legati agli esattori democristiani Nino e Ignazio Salvo attorno a cui ruota metà della finanza e della politica siciliana, e non solo, parlano a telefono con un misterioso «Roberto» in sud America e lo pregano di venire a mettere pace nella guerra di mafia che è scoppiata a Palermo. Roberto, Falcone lo sa già, ma non fa trapelare nessuna indiscrezione, è il nome di battaglia di Masino Buscetta, un protagonista della mafia degli anni ruggenti, da tempo assente da Palermo. Buscetta e i suoi amici mafiosi vengono segnalati attorno al 1969/1970 in Italia da un rapporto di polizia anch’esso sino allora trascurato.E Falcone fa osservare quel giorno che il 1970 è un anno importante, un anno di minacce alla democrazia, parlava del golpe Borghese, e qualche anno dopo Buscetta e Liggio gli spiegherano che la mafia era pronta a parteciparvi… Deve esserci da qualche parte la foto di Falcone che sorride, mentre ci invita – come un assistente universitario si rivolge a un laureando che chiede la bibliografia per la tesi – a “studiare attentamente” quelle carte.
E infine c’è, sicuramente giace in qualche archivio, la foto scattata in via Giuseppe Pipitone Federico, sotto casa di Chinnici, quando arrivammo la mattina rovente del 29 luglio 1983 assieme con il fotografo dalla redazione dell’Ansa e lui, Falcone, dal palazzo di giustizia: un’autobomba, brandelli di carne, una gamba smembrata sul ramo di un alberello, lì davanti. Non c’è la forza per piangere, l’odore acre dell’esplosivo e del sangue mozzano il fiato. Falcone sussurra: Palermo come Beirut. E quella frase finisce su tutti i telegiornali.

L’Unità 23.05.12