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"Italia più povera. Salari fermi risparmi in calo", di Roberto Giovannini

Un baratro tra Nord e Sud, tra classi sociali, tra chi ha un posto fisso e chi è precario, tra uomini e donne, tra chi studia e chi a malapena riesce a completare la scuola dell’obbligo. La fotografia che l’Istat scatta dell’Italia nel suo rapporto 2012 è quella di un paese spaccato da tante disuguaglianze. Diseguaglianze differenti, che percorrono trasversalmente il paese, aprendo la strada a scenari davvero preoccupanti. Nel corso dell’ultimo anno, spiega il presidente dell’Istituto di Statistica Enrico Giovannini, l’Italia ha scoperto di essere «più vulnerabile di quanto pensava». Una presa di coscienza che è servita a «mettere mano» su «numerose questioni irrisolte», ma comunque anche il 2012 è destinato ad essere «ricordato come un anno molto difficile». Un anno in cui in pratica l’Italia ha finito di «mangiarsi» l’intero dividendo dell’euro, pure conquistato con tanti sacrifici.

Un tratto unificante del Paese, se vogliamo, è quello del ritorno evidente della separatezza tra le classi sociali. Tra i trentenni, solo il 20,3% dei figli degli operai è riuscito ad arrivare all’università, contro il 61,9% dei figli delle famiglie agiate; ben il 30% dei ragazzi delle famiglie operaie abbandona la scuola superiore, contro appena il 6,7% dei figli di dirigenti, imprenditori, liberi professionisti. In altre parole, «la classe sociale di origine influisce in misura rilevante sul risultato finale, determinando rilevanti disuguaglianze nelle opportunità offerte agli individui», e «tutte le classi (in particolare quelle poste agli estremi della scala sociale) tendono a trattenere al loro interno buona parte dei propri figli e i cambiamenti di classe sono tanto meno frequenti quanto più grande è la distanza che le separa».

Sul fronte dei salari, tra il 1993 e il 2011 le retribuzioni contrattuali, in termini reali, sono rimaste ferme. Non è andata meglio per le retribuzioni di fatto, ovvero le buste paga, salite solo di quattro decimi di punto l’anno. Non stupisce dunque come il reddito reale disponibile delle famiglie sia diminuito nel 2011 per il quarto anno consecutivo, tornando ai valori di dieci anni fa. Dal 2007 a oggi la perdita è di ben 1.300 euro a testa. La propensione al risparmio delle famiglie consumatrici è scesa all’8,8% nell’ultimo anno, la percentuale più bassa dal 1990. In altri termini, le famiglie non solo non risparmiano più, ma dopo aver intaccato le loro riserve ora tagliano i consumi.

Siamo un paese da record. Negativi. Negli ultimi dieci anni, tra il 2000 e il 2011, con una crescita media annua pari allo 0,4%, l’Italia risulta ultima tra i 27 stati membri dell’Ue. Il sommerso vale tra 255 e 275 miliardi, cioè il 16,3-17,5% del Pil. Sono 2,1 milioni i ragazzi che non studiano né lavorano, i cosiddetti Neet. D’altra parte per gli under 30 il tasso di disoccupazione ha raggiunto il 20,2%. Ma anche quando hanno un impiego i giovani sono penalizzati, infatti oltre un terzo degli under 30 ha un lavoro a tempo determinato (contro un valore medio del 13,4%). E a 10 anni dal primo impiego precario il 29,3% è ancora rimasto nell’inferno del lavoro insicuro, e circa il 10% non è più occupato.

Al Sud sono povere 23 famiglie su 100, al Nord soltanto 4,9. Sono le regioni meridionali quelle che offrono minori opportunità di lavoro, che scontano svantaggi nella dotazione di servizi sociali (dagli asili nido all’assistenza per gli anziani) sanitari e ambientali. Quanto alla famiglia, a parte il boom di single e convivenze, le donne continuano a essere penalizzate: a due anni dalla nascita del figlio quasi una madre su quattro in precedenza occupata non ha più un lavoro.

La Stampa 23.05.12

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“Salari e redditi fermi da 20 anni l´Italia si scopre più povera”, di Luisa Grion

Nel Mezzogiorno, sono in difficoltà 23 famiglie ogni cento contro le 4,9 del Settentrione. Nel 2011 l´export nazionale è cresciuto dell´11,4%, ma si è anche ridotta la nostra quota nel commercio mondiale. Finalmente il Paese ha compreso di essere vulnerabile, decisioni politiche più veloci e consapevoli. E´ l´anno più duro. L´Italia è quasi ferma, dalla crisi del 1992 a quella in corso, ha «vivacchiato», è cresciuta poco e nulla, si è trascinata dietro questioni antiche e mai risolte: il Sud, l´incapacità a valorizzare le donne, la resistenza a lasciar spazio ai giovani. Siamo un Paese che non si muove, dove è diventato più difficile, per i figli, fare un passo avanti rispetto ai genitori e dove scuola e merito non rappresentano un trampolino di lancio. Rispetto a venti anni fa c´è qualche laureato in più, ma ci sono anche parecchi bambini in meno. Non siamo morti: c´è chi ha ancora voglia di combattere e partire con la sua impresa alla conquista dell´export, ma la competitività è dura da raggiungere e la prestigiosa, vecchia manifattura ogni anno perde pezzi. Siamo proprio nel mezzo di quello che l´Istat, fin dalla prima riga del suo rapporto sul 2012, definisce «un difficile passaggio», ma il Paese – assicura il presidente Giovannini – «ha compreso la gravità della situazione» e «l´accelerazione decisionale che ne ha fatto seguito».
MENO CRESCITA, MENO REDDITI
Si sa che va male per tutti, ma per l´Italia va peggio: negli ultimi venti anni siamo rimasti quasi fermi. Dal 1992 al 2011 il tasso medio di crescita annua è stato dello 0,9 per cento mentre la Francia arriva all´1,6 e la Spagna, al di là del quadro attuale, è avanzata a colpi del 2,5. Tradotto in reddito reale e in potere d´acquisto delle famiglie ciò ha prodotto un balzo all´indietro. «Il 2011 è stato il quarto anno consecutivo in diminuzione – ha chiarito Giovannini – stiamo tornando ai livelli di dieci anni fa». Il reddito pro capite è inferiore del 4 per cento rispetto al 1992, del 7 rispetto al 2007. In quattro anni si sono persi 1.300 euro a testa e la propensione al risparmio è crollata dal 12,6 all´8,8 per cento.
L´ASCENSORE ROTTO
L´Istat la definisce «bassa fluidità sociale»: come nasci, così resti. Se tuo padre è notaio sarai notaio anche tu, se fa i turni in fonderia, probabilmente li farai anche. Solo l´8,5 di chi nasce in una famiglia operaia ce la fa a diventare dirigente e dalla scuola non arriva più la spinta. «Anche l´operaio vuole il figlio dottore» recitava «Contessa», colonna sonora del ‘68: dopo oltre quarant´anni, informa l´Istat, la classe sociale dei genitori continua ad influenzare i percorsi formativi dei figli. Fra i ragazzi degli anni 80 solo il 23 per cento dei nati nelle classi meno agiate è arrivato all´Università, contro il 61,9 di quelle agiate; nelle scuole superiori gli abbandoni, nel primo caso, arrivano al 30 per cento, nel secondo si fermano al 6,7.
POVERO SUD
La mai risolta questione meridionale affossa i redditi del Sud. Lì sono povere 23 famiglie su 100, contro le 4,9 del Nord. Sono le regioni meridionali quelle che offrono minori opportunità di lavoro e che scontano svantaggi nella dotazione di servizi sociali (dagli asili nido all´assistenza per gli anziani). Ed è li che i Comuni spendono meno in welfare: la media nazionale è di 116 euro procapite, ma va dai 295 della provincia autonoma di Trento ai 26 della Calabria, un divario che si va allargando. L´economia sommersa pesa come un macigno: vale 275 miliardi, il 17 per cento del Pil, rispetto al 2000 risulta contenuta, «ma con la crisi si è verosimilmente riallargata».
GIOVENTU´ PRECARIA
L´Italia non è un paese per giovani, lo ha dimostrato nei giorni scorsi lo studio della Coldiretti sull´avanzata età della classe dirigente, lo certifica l´Istat. Il risultato è che i figli restano tali più a lungo: fra i 25 e i 34 anni quattro su dieci vivono ancora in famiglia. «Bamboccioni» per forza: il 45 per cento vive con i genitori solo perché non può permettersi una vita autonoma e il lavoro precario avanza tagliando le ali. Dal 1993 al 2011 i dipendenti a termine sono cresciuti del 48,4 per cento. Nel 2011 l´incidenza del lavoro temporaneo sul complesso del lavoro subordinato è stata pari al 13,4 per cento, il valore più elevato dal 1993, ma ha supera il 35 per cento (quasi il doppio del 1993) fra i 18-29enni.
LA CRISI DELLE DONNE
La discriminazione femminile con la crisi è peggiorata. Quando lavorano le donne, guadagnano di meno (e la disparità cresce con l´aumentare del reddito), ma trovare un posto è già un´impresa: il 33,7 per cento delle italiane tra i 25 e i 54 anni non percepisce redditi (contro il 19,8 per cento nella media Ue). Studiano di più, ma «guai» a fare figli: il lavoro per le madri – rispetto ai padri – è 9 volte inferiore nel Nord, 10 nel Centro e 14 nel Mezzogiorno. Nelle coppie in cui lei non lavora (il 30 per cento sul totale) oltre il 47 per cento delle donne non ha accesso al conto corrente.
CHI CE LA FA
Eppure non tutto è nero: l´export italiano cresce (più 11,4 per cento nel 2011), anche se la competitività è in sofferenza. Negli ultimi dieci anni, sottolinea l´Istat «l´Italia ha rafforzato i processi d´internazionalizzazione ma esistono ancora spazi di miglioramento».

La Repubblica 23.05.12

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Istat, PD: “Penalizzati donne, giovani e Sud del Paese. Appello al governo per invertire la rotta”

La fotografia dell’Italia che ci restituiscono oggi i dati dell’Istat conferma quali devono essere le priorità di intervento per cambiare passo, per puntare alla ripresa economica e al rilancio dell’Italia. Sono necessari, non più procrastinabili, misure per le donne, per i giovani, per il Sud di questo Paese.

“L’Istat – ha commentato Anna Finocchiaro Presidente del Gruppo del PD al Senato.- certifica che, mentre negli ultimi 20 anni il tasso di scolarità si è innalzato proprio grazie al contributo femminile, purtroppo le donne restano discriminate sia nel mondo del lavoro che in famiglia. Sulle donne gravano i maggiori carichi famigliari e i più elevati livelli di disoccupazione e in questo l’Italia resta il fanalino di coda dell’Europa. Di più, a questo si associano i dati sulla natalità, sulla povertà e sulla situazione delle ragazze e dei ragazzi. Si conferma che l’Italia non è un Paese per giovani e per donne, specie al Sud”.

“In fondo alle classifiche europee per come considera e valorizza donne e giovani: è questo il quadro che emerge dai dati Istat resi noti oggi ed è la triste conferma di quello che già da qualche anno conosciamo bene. Un Paese dove chi vuole entrare nel mondo del lavoro fatica e se è dentro, proprio perché più indifeso, ne esce al primo battito di crisi. E le donne hanno pagato cara la crisi e le misure di risanamento”. E’ il commento di Roberta Agostini, Coordinatrice della Conferenza nazionale delle donne democratiche e membro della Segreteria Nazionale del PD.

“Noi insistiamo da tempo nel dire che un Paese che non investe su giovani e donne è un paese bloccato e fermo e che solo politiche di investimento e di sostegno al lavoro possono invertire una tendenza regressiva per l’intera comunità. Il lavoro delle donne – ha spiegato Agostini – chiama in causa la necessità di una visione integrata della vita sociale, familiare, produttiva e riproduttiva. Richiede riforme profonde sia sul terreno del mercato del lavoro, sia in materia di welfare: riduzione della giungla di tipologie contrattuali precarie, potenziamento dei servizi per l’impiego, misure finalizzate a sostenere il reddito delle lavoratrici o ad incentivare l’imprenditoria femminile”.

Agostini ha evidenziato quelli che dovrebbero essere “i cardini della crescita di un Paese: la tutela universale della maternità, a prescindere dalla tipologia contrattuale, e l’estensione dei servizi per l’infanzia, diritti fondamentali che rappresentano anche leve di crescita del Paese”.

Per questo il PD chiede al governo di farsi promotore di misure efficaci. “Nel provvedimento di riforma del mercato del lavoro all’esame del Senato, sono contenute alcune ma ancora insufficienti novità. E’ ora urgente una strategia politica e provvedimenti incisivi – ha concluso Agostini – per invertire la rotta descritta dai dati Istat”.

“Anche il Sud del Paese necessita un’inversione di rotta”, ha aggiunto la deputata del PD Luisa Bossa, a commento dei dati dell’ultimo rapporto Istat.

“Leggere che il meridione è alla deriva – ha proseguito la deputata napoletana – fa male. L’analisi, ovviamente, è incontestabile. Ma quei numeri sono una ferita aperta. Siamo chiamati in causa tutti, ciascuno per la sua parte. Il cambiamento parte da un’autocritica profonda e collettiva. Ma non si può non guardare alla responsabilità dei gruppi dirigenti. Per anni, il Governo Berlusconi ha spostato l’asse degli interventi da Sud a Nord, cancellando di fatto la questione meridionale e ribaltandola, con un assurdo paradosso, nella questione settentrionale. Invece, numeri e cifre, ci ricordano che esiste una drammatica condizione di sviluppo diseguale, che richiede politiche di segno diverso”.

L’appello di Bossa va anche al Governo Monti. “Il decreto per sbloccare quote di pagamento della Pubblica amministrazione verso le imprese non può escludere una regione come la Campania, solo perché esiste un Piano di rientro dal disavanzo. Con questo principio, si decide di aggravare ancora di più la situazione. La logica vorrebbe, invece, il contrario, e cioè che ci concentrassero risorse maggiore dove maggiori sono i problemi”.

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