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La confraternita dei "qualcosisti" di Alberto Statera

La scapigliatura di Luca Montezemolo, il leggiadro ondivagare senza una rotta di Emma Marcegaglia, attratta a fasi alterne dalle menzognere sirene berlusconiane, e ieri ancora l´ennesimo stanco rito d´insediamento “qualcosista” del nuovo presidente della Confindustria Giorgio Squinzi. Il quale promette che, dopo una battaglia epica con il suo avversario Alberto Bombassei, egli è animato soltanto dalla “missione”, parafrasando, forse senza avvedersene, i vecchi leader democristiani che si appellavano allo “spirito di servizio”. E negando l´assioma di Gianni Agnelli, secondo il quale in quella poltrona si alternano ormai soltanto “professionisti confindustriali”. Non bastano le vaghe evocazioni schumpeteriane del neo eletto bulgaro («il cambiamento per noi imprenditori è un modo di essere») a dare nerbo a una cerimonia già vista un´infinità di volte, che quasi sempre, come ha notato non uno qualunque ma Giorgio Fossa, uno degli ex presidenti, si trasforma in «un oceano di chiacchiere generiche».
«Così come è questa Confindustria non serve proprio a nulla», ci soffia all´orecchio uno degli imprenditori che siede sbadigliante nelle prime file e paga un bel pacco di contributi associativi: «Ha ragione Marchionne a starsene fuori». E un altro a ricasco rincara: «Ormai ricordiamo i vecchi partiti che non hanno più niente da dire». Un Beppe Grillo di sicuro qui nell´Auditorium della Musica non c´è. Basta scrutare il tavolo della presidenza – venti facce più o meno note dell´industria privata e pubblica, appena ingentilite da un tripudio di fiori freschi come fosse San Remo – che sembra il palco del Politburo della vecchia Unione Sovietica. E poi, per l´appunto, le parole all´insegna del “Qualcosismo” che perpetua il “Partito dei Qualcosisti”, come lo chiamava Francesco Saverio Nitti. «Ci vogliono soluzioni per superare la crisi», dice il neo presidente. Ma cosa? «Qualcosa». Le “priorità” sono tante e tali e così genericamente declinate che non può sfuggire il paradosso: quando le priorità sono troppe non sono più priorità, ma necessariamente posteriorità. La «madre di tutte le priorità», come la chiama Squinzi (del quale sarebbe interessante conoscere il ghost writer) è la riforma della Pubblica Amministrazione, «che ci può aiutare a tornare a crescere». Ma se in cent´anni la Confindustria non è riuscita a smontare il suo elefantiaco apparato burocratico, la sua struttura pletorica e autoreferenziale, come può pretenderlo dallo Stato?
Nell´Auditorium ci inseguono nugoli di attacché per presentarci «il nuovo vicepresidente». Uno, due, tre. Ma quanti sono i nuovi vicepresidenti? Undici. Sì, avete capito bene. Undici, più un numero incalcolabile di comitati tecnici, commissioni, 267 organizzazioni territoriali, un numero di dipendenti superiore a quello del ministero degli Esteri, che ha rappresentanze diplomatiche in ogni parte del mondo. Nel palazzo di vetro della Confindustria all´Eur c´è in pratica una duplicazione di ogni funzione della Pubblica Amministrazione da abbattere. Costo del tutto all´incirca 600 milioni di euro l´anno, che molti non vorrebbero più sborsare. Un apparato che non ha l´eguale né in Germania né in Gran Bretagna e forse in nessuna altra parte del mondo industriale.
Il ministro Corrado Passera però sta al gioco e in un´enumerazione priva di pathos di quanto sta facendo con il governo “strano”, concorda sulla priorità delle priorità confindustriale sulla Pubblica Amministrazione. E cosa promette? Un provvedimento ad horas. No, un “tavolo”, un “gruppo di lavoro”, una “commissione tecnica” di grandi esperti (ancora tecnici in aiuto ai tecnici?), pur rivendicando al Politburo e alla gelida platea «qualcosa di più che l´enunciazione dei problemi stessi». Intanto lui mobiliterà 100 miliardi in un futuro «non lontano». Per che cosa? Per “Grandi Lavori”, che sembrano sinonimo delle “Grandi Opere” che Berlusconi ha propagandato per un paio di decenni, ma che non si sono mai palesate. Poi ci vorrà un “gruppo di lavoro” che stabilisca se convenga fare un paio di autostrade in Sicilia, come si favoleggia, o magari tentare di sistemare il territorio di un´Italia che frana, anche quando non viene devastata dai terremoti.
Un regalo di addio alla Marcegaglia, che dice di essere pronta a tornare a Gazoldo degli Ippoliti mentre il suo avversario Montezemolo tardivamente annuncia una mezza discesa in campo politica per salvare l´Italia, in verità il governo lo ha fatto con il pagamento (ma in che tempi? ) di parte dei crediti delle imprese nei confronti dello Stato. Per il resto il cahier de doleances risuonato ieri a Parco della Musica è su uno spartito più che noto: ci vogliono investimenti. Ma chi li deve fare, se negli ultimi lustri molti imprenditori si sono arricchiti e il resto del paese si è impoverito, con un trasferimento di ricchezza dal lavoro al capitale, visto che tra le aziende quotate a Piazza Affari i soldi prelevati come dividendi sono assai più di quelli investiti come aumento di capitale? Ci vuole una riforma del fisco e una riduzione della pressione fiscale. Ma come si fa se l´evasione appare invincibile anche per merito di non pochi imprenditori? «Uscire dall´emergenza – avverte Squinzi – non esaurisce il grande tema di una nuova politica industriale per la crescita». Giusto, ma dov´è, a parte l´ovvia domanda di modernizzazione del paese, il progetto della Confindustria?
Uno degli economisti che su questo la canta più chiara è Marco Vitale: «In questi anni, da Confindustria – ha scolpito – non è venuta fuori neanche un´idea degna di nota sul come uscire dalla crisi. Solo vecchie richieste rivestite di attualità in un momento in cui l´imprenditoria avrebbe bisogno di idee, di direzione strategica, di spinte verso il futuro e verso il nuovo». Per concluderne: «Se per un colpo di bacchetta magica la Confindustria sparisse domani, non succederebbe niente di grave».
Sciama mogio e silenzioso dall´Auditorium il popolo degli imprenditori, che solo qualche anno fa osannava il grande progetto riformatore del “collega” Berlusconi («il vostro programma è il mio programma») e adesso, incapace di esercitare il ruolo di classe generale, si sente tradito dalla politica. Molti di loro non ricordano o non sanno quanto diceva Alcide De Gasperi nel 1948, ai tempi del “Quarto partito”: «Le leve del comando decisive in un momento così grave non sono in mano né degli elettori né del governo». Ma in quelle dei padroni, che dovrebbero ritrovare l´impulso schumpeteriano per trasformare la crisi in un´occasione di sviluppo e crescita. Non di eterna querimonia.

La Repubblica 25.05.12

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“Un patto per il lavoro” di Claudio Sardo

L’esordio di Giorgio Squinzi come presidente di Confindustria ha colpito per la sobrietà non usuale in tempi di demagogia straripante e per la ragionevolezza con cui ha collegato il ruolo sociale delle imprese (e dei corpi intermedi) all’espansione del lavoro, e dunque alla qualità della vita e della democrazia. Al nostro Paese, travolto più degli altri dalla crisi, serve un patto per il lavoro. Il volto umano della crescita è esattamente il lavoro. Oggi è questa la priorità assoluta della buona politica.
Intorno a questo obiettivo si devono raccogliere le forze che intendono riportare l’Italia in seria A: speriamo che si riesca a trasferire su questo terreno la competizione politica, anziché sul teatro dei comici e dei cavalieri dove, a dispetto di tante parole, le sofferenze delle persone e delle imprese sono filtrate dalle lenti spesse della politologia e della propaganda.
Non era affatto scontato il messaggio di Squinzi. Le classi dirigenti italiane, comprese quelle imprenditoriali, hanno non di rado manifestato sentimenti assai diversi. Tra chi ha conteso a Squinzi la presidenza era evidente l’intento di costituire un vero e proprio «partito dei padroni», capace di condizionare in modo diretto il gioco della politica. Non che la Confindustria in passato sia mai stata neutrale, neppure quella di Squinzi lo sarà, ma il tema è se rassegnarsi alla fine della contrattazione nazionale, e con essa all’eliminazione delle autonomie sociali. La spinta che viene dalla Fiat di Marchionne va esattamente nella direzione di una destrutturazione dei corpi intermedi. Erano il tesoro indicato dalla nostra Costituzione: sono diventati la zavorra di cui liberarci in nome della competitività.
Il neo presidente di Confindustria invece ha detto ieri il contrario. Ha detto che occorre ripartire dall’accordo interconfederale del 28 giugno (accordo a cui Fiat si è sottratta). Ha detto giustamente che occorre ora «definire l’effettiva rappresentatività dei soggetti negoziali», rafforzando la democrazia sindacale. E soprattutto ha provato a stilare un’agenda per tutti coloro che, appunto, hanno a cuore l’espansione del lavoro: sgravi fiscali volti a favorire la capitalizzazione delle imprese, le assunzioni, l’export; riforma della Pubblica amministrazione; ricerca e sostegno all’innovazione; politiche industriali degne di questo nome.
Squinzi di certo difenderà fino in fondo gli interessi che rappresenta. Lo hanno dimostrato le parole dure con cui ha bocciato la riforma del mercato del lavoro oppure l’emendamento, approvato dal Senato, per incentivare la partecipazione dei lavoratori all’azionariato delle aziende. Tuttavia Squinzi ha mostrato un’apertura a quel patto per il lavoro, che è indispensabile per il futuro del Paese e che sarebbe un errore non cogliere come una sfida positiva. Sarebbe un errore ancora più grave dal momento che nelle classi dirigenti molti sono tentati da fughe o scorciotoie e anche nel governo dei tecnici c’è chi straparla con preoccupante frequenza. Squinzi ha invece detto che il valore sociale dell’impresa sta nella capacità di andare oltre il guadagno dei singoli, e anche oltre il mercato. Non può dargli torto chi crede nel binomio sviluppo-solidarietà.
Certo, resta forte la domanda di equità e di riduzione delle diseguaglianze che preme sull’auspicabile patto per il lavoro: le imprese non possono sottrarsi perché troppo a lungo hanno sostenuto la coincidenza tra la ricchezza individuale degli imprenditori e l’interesse generale del Paese. Oggi sarebbe un passo avanti indicare come obiettivo non l’arricchimento dei singoli, bensì quello delle aziende, che possono così investire di più in lavoro, ricerca, innovazione.
Poteva ieri Squinzi raccogliere applausi facili dicendo anche lui qualche frase alla Grillo o alla Montezemolo sui politici incapaci e corrotti. Non lo ha fatto dando così una lezione di umiltà: chi vuole davvero ricostruire comincia sempre dai propri errori. Ora verrà la prova dei fatti. Il primo contratto da rinnovare è proprio quello dei chimici, settore dal quale Squinzi proviene. Poi ci sarà la fine della legislatura e l’inizio della prossima. Per riportare l’Italia in seria A bisogna uscire dalla Seconda Repubblica imboccando la giusta strada. Il mondo del lavoro può scoprire di avere in comune molti più interessi che in passato.

l’Unità 25.05.12