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«Perché lo abbiamo fatto» Parlano gli uomini, a cura de La 27esima Ora

Incapacità di vivere una relazione di coppia, paura di stare soli. La fragilità dietro gli abusi. Non sono tutti uguali. Gli uomini che usano violenza sulle donne popolano una zona d’ombra della nostra società che dobbiamo cominciare a (ri)conoscere. Ci sono ancora i padri-padroni, che s’aggrappano con la forza dei loro muscoli alla tracotanza di un potere millenario e anacronistico. C’è una minoranza di uomini con disturbi psichiatrici, che andrebbero diagnosticati e curati. Ci sono gli irriducibili che picchiano, schiavizzano, in alcuni casi uccidono e non si chiedono nemmeno il perché. Sono solo la punta dell’iceberg, quella che più facilmente finisce sulle pagine dei giornali o in un commissariato di polizia. Sotto, si cela una moltitudine di uomini che insultano, tirano sberle, maltrattano con angherie quotidiane o periodici raptus le proprie mogli, compagne, amanti, a volte anche le figlie. Chiedendosi magari il perché ma senza riuscire, da soli, a fermarsi. E il finale tragico è sempre in agguato. Accanto alle storie-confessioni raccolte in queste pagine, abbiamo chiesto a quattro esperti di aiutarci a comprendere cosa avviene nella mente di questi uomini e, se possibile, di spiegare come individuare i meccanismi che scatenano la violenza.
«Nella stragrande maggioranza dei casi, dietro gli abusi c’è un’incapacità di stare nella relazione, di gestire conflitti, solitudini, paure d’abbandono. Una fragilità che non si riesce a riconoscere. Serve un nuovo linguaggio per spiegarla: il patriarcato di terza generazione è molto più subdolo e sottile», spiega Roberto Poggi, counselor e animatore de «Il Cerchio degli Uomini», associazione di volontari di Torino che da anni ha uno sportello d’ascolto per il disagio maschile. «Se un terzo delle donne italiane dichiara di aver subito violenza, significa forse che il 25-30% degli uomini sono delinquenti? Impossibile. Esiste piuttosto un sommerso enorme in Italia, che richiede un cambiamento profondo nelle relazioni, nella capacità di saper gestire i conflitti».
Nella stragrande maggioranza dei casi è la donna a uscire con le ossa (e la mente) rotte da una visione distorta delle relazioni affettive che, nel chiuso delle quattro mura domestiche, degenera nella violenza. «L’assunto di molti uomini è: io non sono violento, la colpa è sua, è lei che mi esaspera. E dunque la mia violenza è soltanto punizione, vendetta». Stefano Ciccone, 48 anni, fondatore dell’associazione nazionale «Maschile Plurale», riflette su relazioni e stereotipi di genere e in particolare sul «rancore degli uomini» (nel libro Silenzi, Non detti, reticenze e assenze di (tra) donne e uomini, edizioni Ediesse). «Un rancore che fa leva su un disagio diffuso, reale, ma lo interpreta in un modo distorto — aggiunge Ciccone —. Nasce dalle dolorose vicende di separazione, dalla rappresentazione paranoica di un femminismo persecutorio, dal risentimento per lo stesso potere seduttivo delle donne che svela tutta la fragilità maschile».
Se la cultura diffusa non aiuta, in Italia spesso anche il disagio degli uomini non trova risposte adeguate: quelli che vogliono mettere in discussione le loro reazioni «sbagliate» non trovano a chi rivolgersi. Lo ammette Marina Valcarenghi, psicoterapeuta di formazione junghiana e presidente di Viola, associazione per lo studio e la psicoterapia della violenza. «Sul piano psicoterapeutico attualmente non c’è niente, salvo qualche iniziativa sperimentale (fra cui la mia, durata nove anni nel carcere di Opera, a Milano), sia per mancanza di soldi, sia per disinteresse delle istituzioni, sia anche per la latitanza della mia categoria professionale che troppo spesso non riesce a distinguere fra la ripugnanza morale e il compito terapeutico». Anche lei conferma che, nella maggior parte dei casi, non si tratta di uomini malati: «Non si deve riabilitare né guarire; l’obbiettivo è lavorare sulle cause che hanno lasciato emergere l’istinto violento e disattivato i freni inibitori».
La necessità di non lasciare soli questi uomini è ribadita con forza dal dottor Massimo Lattanzi, coordinatore nazionale del Centro Presunti Autori, che invoca una svolta nelle politiche per contrastare violenza e stalking: «Nel triennio 2009/2011 hanno lasciato sul campo circa 400 vittime tra bambini e donne assassinate e uomini suicidi. Nel 95% dei casi il contesto è quello delle relazioni interpersonali, l’episodio che le scatena la separazione, l’abbandono o il rifiuto. Dopo il cosiddetto “colpo di abbandono improvviso” i presunti autori non possono fare a meno di ricontattare e avvicinare la propria vittima, una forma di craving simile a quella vissuta dai dipendenti da sostanze o gioco d’azzardo. Senza un percorso continueranno ad agire anche dopo le misure cautelari», spiega. Per spezzare questa catena è necessario educare gli uomini a una nuova socializzazione, accompagnarli verso modalità più rispettose di relazione. «Nel 70% dei casi il nostro protocollo ha evitato recidive meglio delle misure cautelari. Il muro invalicabile della denuncia o di una misura cautelare è vissuto come ulteriore rifiuto e può produrre gesti molto gravi. Gli strumenti devono essere quelli di una giustizia di tipo riparativa, non solo punitiva, altrimenti il ciclo della violenza non si chiuderà».
Posizione che non trova molti consensi tra gli altri esperti. Come sintetizza Poggi, «la denuncia è uno strumento che serve, perché contiene e ferma la violenza». Una misura d’emergenza come, su tutt’altro piano, le tecniche che insegnano a contenere gli accessi di rabbia. «Poi, per ottenere un cambiamento, bisogna lavorare a lungo, con altri strumenti». Reimparare l’abc delle relazioni non è cosa di un giorno.

Il Corriere della Sera 25.05.12

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«Ero Disperato, l’Ho Picchiata come Mio Padre»

F. 48 anni, impiegato, una figlia da precedente matrimonio. «Prima ancora di essermi pentito per quello che ho fatto, mi sono reso consapevole di ciò che ho fatto. Il pentimento è un’emozione subdola, perché può nascondere la paura. Ed è la paura a far scattare la violenza».
«Mi sono lasciato andare ad un primo episodio dove non c’è stato contatto fisico ma l’ho minacciata (con un coltello, secondo la denuncia). Poi c’è stato il secondo episodio: le ho stretto le mani al collo… perché ero davvero disperato. Avevo paura. Quella sera poi sono arrivati i carabinieri, mi ricordo che uno ha commentato: “Ma sì, queste donne sono delle rompicoglione!”».
La compagna finisce al pronto soccorso ma non denuncia e non ci sono gli estremi per la denuncia d’ufficio. F. va da uno psichiatra e chiede aiuto anche per lei. «Ma una donna che decide di non denunciare non viene aiutata, le hanno ribadito più volte che potevano darle ospitalità in una casa famiglia solo se mi avesse denunciato. E questa è una cosa vergognosa. Una donna può non denunciare per paura, per vergogna…». Perché la sua compagna non l’ha fatto? «Non lo so dire. Credo che abbia compreso il mio momento difficile. Poi ha visto che mi sono dato subito da fare per uscirne».
Così F. e la sua compagna, insieme al figlio piccolo di lei, tornano a vivere insieme. Ma la relazione di coppia continua a non funzionare. F. ha una figlia, «ero convinto di ricreare una famiglia». Non è così. «Non riuscivo a trovare una soluzione, avevo sensi di colpa nei confronti di mia figlia che un po’ trascuravo. Un disagio cui si univano altri problemi, le difficoltà economiche… Da lì sono cominciate le mie paure. Io non sono uomo aggressivo seriale. Mi sono trovato in una situazione di malessere, che era già presente dentro di me, e lì è scattata l’unica strada per me percorribile, perché così mi è stato insegnato. Sono cresciuto in una famiglia dove mio padre picchiava mia madre, mio zio picchiava mia zia… In realtà non amavo davvero questa donna. Mi ero abituato alla sua presenza in casa. E lì è nato il disastro. Non ne potevo proprio più e sono crollato emotivamente».
Non passa molto tempo dalla prima violenza, quando la compagna «mi offende» per futili motivi davanti ai figli. «Al momento non ho reagito, però quella sera mi sono messo a piangere e mi è salita questa rabbia. Mi sono sentito solo e ho fatto la cosa più assurda». Invia ripetuti sms al counsellor. «Ho scritto qualcosa come “basta, mi sono rotto, io a questa le tiro il collo, me ne frego se finisco in galera”, in realtà non avevo alcuna intenzione di farle del male, stavo già lavorando su di me». Questa volta, però, parte la denuncia d’ufficio. E dopo la denuncia? «Non mi ha più chiamato nessuno». F. ora ha una nuova compagna, alla quale ha raccontato tutto. Non avrà più episodi del genere? «Sono un uomo che non ha più paura. È su questo che gli uomini violenti devono lavorare: sulle proprie paure. Ora io non ho più paura e in quell’inferno non ci voglio più tornare, ma come faccio ad essere sicuro che quella cosa non capiterà più?».

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«l’Abbandono poi le Telefonate Mi ha Salvato Lei»

G. 40 anni, pregiudicato, denunciato per stalking dalla ex compagna. «Sto iniziando un percorso perché mi rendo conto che ho un problema. Ringraziando Dio ho ancora una coscienza che mi permette di capire che quello che ho fatto in passato è sbagliato. Fin dalla mia prima esperienza duratura, vent’anni fa, ho avuto dei problemi di relazione, che poi si sono ripetuti. Ora ho due bambine, però, e lo sto facendo per far vivere meglio loro. È un impegno che ho nei confronti della mia famiglia e non ultimo anche di me stesso. Perché alla fine non credo di meritare una vita così… Una vita di sofferenza».
G. ripercorre l’iter di tutte le sue relazioni. «Seguivano quasi un copione: l’idillio iniziale poi i problemi che non riuscivo a gestire, per carenze mie personali, caratteriali. E quando io stesso metto in condizione la persona di lasciarmi scatta qualcosa… è l’istinto che a volte mi spinge a fare quella telefonata in più».
«Quella telefonata in più», dopo la separazione dalla madre delle sue figlie, diventa una denuncia per stalking, che in italiano significa persecuzione. «Io non mi sento lasciato: mi sento abbandonato, mi fanno male le viscere. Lì per lì è come se stessi scacciando un dolore. Un dolore fisico. Una cosa che non riesci più a sopportare. Come se avessi un’esplosione interna. Stiamo cercando le cause in qualcosa che ho subìto durante l’infanzia, è lo scopo del percorso di cura che sto seguendo all’Osservatorio nazionale stalking».
La persecuzione post-separazione è stata preceduta da una convivenza difficile, spesso violenta. «Ceffoni, cose del genere. Quando lei mi si metteva muso a muso ed esercitava magari violenza verbale, ma anche fisica, su di me, io non mi rendevo più conto di avere una donna davanti. Era come se mi si paresse di fronte un altro uomo aggressivo e quindi non distinguevo più…». Si è reso conto da solo di aver bisogno di aiuto? «Sono stato accompagnato in ospedale dalla mia ex. Con tutto quello che ha subìto, ha avuto la forza di portarmi in ospedale… Spero di uscire da questa situazione, ma rimpiangerò una persona che mi ha amato più di se stessa. Mi ha denunciato due mesi fa, dopo anni di problemi». Una denuncia che, sostiene G., «carica la persona denunciata di rabbia e l’altra di ansia. Ho imparato da poco a chiamarlo stalking». Se la sua ex compagna non l’avesse denunciata si sarebbe rivolto a un centro per farsi seguire? «Non credo».

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«Mi insultava, l’Ho Stretta al Muro Cos’è questa Cosa, sono Davvero Io?»

A. 45 anni, celibe, senza figli, dipendente pubblico.
«Sono alto 1,86, peso 80 chili e ho messo le mani addosso alla mia ragazza, che è alta 1,60 scarsi». È iniziato così, con una mail al Telefono rosa, il percorso di A. per uscire dall’inferno. Da fine ottobre partecipa agli «incontri di condivisione» organizzati dall’associazione «Il cerchio degli uomini» e tenta di spiegare, prima di tutto a se stesso, cosa è accaduto. Parlare con il Corriere, dice, è quasi come un «confessionale, una presa di coscienza». All’inizio minimizza e cerca una giustificazione che non c’è: «Urla, strepiti, calci e pugni alle porte, fortunatamente nessun danno fisico. Cioè, sì, mi sono scappati degli schiaffi…». Due anni di convivenza, un anno di «inferno»: «I primi episodi di violenza sono accaduti l’estate scorsa, per una crescente tensione tra noi due dovuta alla sua gelosia. A un certo punto sembrava che fosse superata, lei ha cominciato una terapia psicologica. Però le crisi hanno cambiato obbiettivo. Invece della gelosia, era la mancanza di attenzione o il mio presunto scazzo… Non credo di essere una vittima innocente, però mi trovavo con le spalle al muro. Ho vissuto ansie di controllo, pensavo “speriamo che non si infastidisca per qualche futile motivo”…». A. ci tiene a raccontare subito il quadro di un rapporto di coppia uscito ormai dai binari e il suo passato irreprensibile: «Sono cresciuto in una classica famiglia monoreddito degli anni Settanta, non ho problemi con il sesso femminile». Poi, lentamente, racconta la dinamica della violenza. «Quando abbiamo chiuso, poche settimane fa, non riuscivo a farla smettere di venirmi contro. Lei al solito si metteva quasi distesa sul divano, gambe e braccia incrociate, riempiendomi di invettive, che non erano solo insulti… tu sei un bastardo, la tua parola non vale nulla… Io cercavo di risponderle…». Dalla preghiera al «basta» urlato con la schiuma alla bocca. E poi non bastava più neanche quello. «Una volta mi è partito un ceffone, l’ho stretta al muro, scuotendola, solo che io sono grande e grosso, lei è piccolina. Il giorno dopo aveva le ecchimosi sulle braccia e rincarava la dose. Una volta l’ho presa per i capelli in bagno di fronte allo specchio e l’ho terrorizzata. Sono cose che mi fanno stare malissimo. L’ultima volta l’ho praticamente sollevata di peso dalla collottola e dai pantaloni e l’ho buttata fuori di casa. La sera prima mi aveva fatto una scenata, le avevo detto che era finita, che non ne volevo più sapere, che non ero più padrone delle mie reazioni. E il giorno dopo si è ripresentata chiedendomi scusa… lì non ce l’ho fatta proprio più. Avevo le lacrime agli occhi, l’ho mandata via in malo modo». Si è mai chiesto perché nonostante la violenza la sua compagna tornava? «Lei mi ha detto, a caldo, che lo faceva per non interrompere la relazione».
A. non è stato denunciato, la sua relazione è finita. Ora è il tempo di fare a se stesso molte domande: «Dovrò imparare a convivere con una parte di me che non conoscevo e capire che cavolo è, se è davvero mia, se si ripeterà».

Il Corriere della Sera 25.05.12