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"Quel padre con il dolore tra le braccia", di Mauro Covacich

Siamo bravissimi a rispettare le istanze dei ribelli e quelle di Assad, ma come si può accettare la morte di quei bambini? Una mano solleva il lembo di una coperta e la telecamera inquadra un cervello. Un cervello umano. La mano è di un uomo che impreca e urla e piange aggirandosi tra i corpi allineati dei bambini. Parla in arabo, ma si capisce benissimo cosa dice. A parte l’invocazione di Allah, diremmo tutti la stessa cosa, la stiamo dicendo insieme a lui. Com’è possibile tutto questo? Come potremmo mai essere perdonati per questo? È un padre e probabilmente un combattente. Insieme a lui ci sono altri padri seminascosti sullo sfondo di questa casa trasformata in obitorio, con morti sui divani, sui tavoli, e l’esposizione dei figlioletti-pesce appena usciti dalla mattanza. L’uomo vaga tra i corpi e li solleva. Alcuni li raccoglie con cautela affinché dai crani aperti non tracimi altra materia cerebrale. Non si preoccupa dell’oscenità del gesto, l’oscenità non lo preoccupa più. Altri li afferra per un braccio e li tiene sospesi per il tempo necessario alla telecamera di stringere sul dettaglio. Sono leggeri, piccoli tonni umani offerti all’asta del nostro pudore, della nostra capacità di resistenza. Pare che dica: Quanto sai resistere? Qual è il tuo limite? A questo, a lui sai resistere? Allora guarda quest’altra, guardala bene — una bambina di quattro anni al massimo, il vestitino, il collo, i bei capelli sciolti attorno a un buco — scommetto che con quest’altra non ce la fai. E continua portandoci con lui quasi per mano in un territorio nuovo, a un nuovo livello di conoscenza, perché il viaggio verso gli abissi non finisce mai. Pensavamo di aver visto tutto — bambini senza pelle ripresi negli ospedali palestinesi, una studentessa ribelle che agonizza nel centro di Teheran, uomini che precipitano in camicia bianca dalle Torri gemelle, dittatori giustiziati live — e ogni volta arriva una visione più sconvolgente. È anche un fatto positivo: forse l’anestesia non ha ancora vinto, forse siamo ancora vivi. Ma come possiamo evitare che l’indignazione defluisca anche stavolta nell’invaso mai colmo della retorica?
È possibile che esseri umani adulti, sani di mente, uccidano volontariamente dei bambini? Sembrerebbe di sì, se il gesto è giustificato da un progetto politico. Nessuna aberrazione è sufficiente per fermare l’ideologia. La nostra storia è piena di vittime innocenti: tanti bambini appesi agli alberi, come nell’opera di Maurizio Cattelan, che ci sorprendono mentre passeggiamo tranquilli per la nostra coscienza. Migliaia di bambini sono finiti nei forni nazisti. Ma si può fare anche di più: per un progetto politico si possono uccidere (o brutalizzare) perfino i propri figli, non solo quelli del nemico.
Nel film Apocalypse Now il colonnello Kurtz racconta il seguente apologo. Una squadra di marine entra in un villaggio nella giungla del Vietnam e vaccina i bambini contro la poliomelite. Qualche giorno dopo, nel villaggio arrivano i Vietcong, scoprono che i bambini sono stati vaccinati e tagliano a ognuno il braccio «oltraggiato». Il messaggio è fin troppo chiaro: non vogliamo niente da voi americani, voi siete il nemico e noi al nemico non permettiamo neppure di curare i nostri figli, preferiamo tagliare loro il braccio con i nostri stessi coltelli piuttosto che sopravvivano sani grazie alle vostre cure. Per l’ideologia l’uomo è disposto ad automutilarsi. Nel video di una canzone dei RadioHead intitolata Paranoid Android un pupazzo animato di forma umana fa a pezzi il proprio corpo a colpi di accetta: mi sembra un’immagine perfetta del Progetto uomo. Il testo dice qualcosa tipo: non appena diventerò re, tu sarai il primo che metterò al muro.
E noi non sappiamo che fare: da un canto, siamo occidentali smaliziati che riconoscono dietro ogni intervento della Nato un nuovo atto imperialista — la Libia liberata da Sarkozy per il petrolio, ad esempio — dall’altro abbiamo la sensazione che l’autodeterminazione dei popoli debba avere dei limiti (come non appellarsi alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo?). Da un canto, difendiamo i diritti di sovranità culturale (prima ancora che nazionale) dei singoli Paesi, dall’altro pensiamo con un certo imbarazzo agli ossari di Srebrenica o all’eccidio dei tutsi in Ruanda. Guardiamo questo video sconvolti e impotenti come dovevano essere i caschi blu olandesi mentre vedevano tutte quelle madri bosniache strapparsi i capelli davanti ai corpi massacrati dei loro figli. Non interveniamo per rispetto — rispettiamo le istanze dei ribelli e rispettiamo la ragion di Stato del presidente Assad — siamo bravissimi a rispettare, ma forse non si possono uccidere trentadue bambini. Forse quel padre combattente ci sta dicendo semplicemente questo. Non c’è ragione, non c’è giustificazione, nessuno potrà perdonarti di essere rimasto a guardare.

Il Corriere della Sera 27.05.12