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"Quegli infiniti secondi di terrore", di Mario Tozzi

Esplode con la forza di cento ordigni nucleari, si nasconde nelle profondità della crosta terrestre spezzando le rocce più dure e frantumando case, strade e palazzi. Ci fa mancare la terra sotto i piedi e mina alla base la fiducia stessa nel pianeta che ci ha generati. A differenza degli altri eventi non si preannuncia in alcun modo, si approssima silenzioso e poi risuona con un rombo cupo che spaventa solo a ricordarlo. Dilata il tempo fino all’inverosimile: trenta secondi di scosse equivalgono a trenta minuti di terrore ancestrale. Finisce quando decide lui e poi riprende quando hai appena fatto in tempo a calmarti. E’ contrario al senso comune, che ti spinge a precipitarti fuori casa, quando dovresti, invece, restare lì, e accoccolarti sotto un tavolo o un’architrave. Massacra le consuetudini quotidiane, sconcia i ricordi e di notte fa perfino tremare i sogni. Avevano ragione gli antichi, il terremoto è la catastrofe per antonomasia nel senso etimologico del termine, cioè l’evento che stravolge, che rovescia l’ordine costituito, che rovina per sempre.

E’ molto probabile che la stessa grande struttura geologica sepolta sotto la Pianura Padana che ha scatenato il terremoto del 20 maggio, sia ancora la responsabile ultima di queste scosse micidiali. Si tratta di un frammento di Appennino nascosto che rimane intrappolato nella spinta del continente europeo contro quello africano. E che per questo si spacca lungo una faglia lunga almeno quaranta chilometri. Solo che non si frattura tutto insieme (e forse non è un male), ma a strattoni, e ogni volta che si aggiusta fa tremare come una gelatina i sedimenti sabbiosi poco compatti della Pianura Padana. Sono sismi superficiali e per questo più dannosi, che possono risentirsi fino a Milano e in tutto il Nord. E sono destinati a presentare scosse di replica per settimane se non per mesi.

E’ vero che nessuna spiegazione può bastare a chi ha perduto parenti o amici o ha visto sbriciolarsi sotto gli occhi la propria casa, ma forse è venuto il momento di renderci conto che il nostro è un territorio a elevato rischio naturale. E non importa se si tratta di eruzioni vulcaniche, alluvioni, frane o terremoti: comunque non riusciamo a trovare una via di convivenza che altre nazioni hanno intrapreso con successo. Certo, il nostro patrimonio costruttivo è antichissimo e non abbiamo uno skyline di grattacieli, ma di palazzi e chiese. Preoccuparsi dell’infragilimento di questo patrimonio non è solo questione di sicurezza, ma anche occasione di rilancio e di sviluppo ragionato. Invece in nessun programma politico locale o nazionale compaiono questi temi, nemmeno quando si ricorda che la nazione più grande del mondo ripartì proprio dalla messa in sicurezza del proprio territorio dopo la crisi del 1929, attraverso un New Deal incentrato sulla mitigazione del rischio idrogeologico (anche se fatto a colpi di acciaio e cemento).

E’ vero, il terremoto mette addosso una paura atavica, primordiale che sa di polvere e di battaglia, quella ancestrale degli uomini contro la terra che diventa inospitale. E invece il terremoto è solo una testimonianza sfacciata della forza dinamica di un pianeta che è vivo e che muta costantemente i suoi equilibri. E l’Italia è uno dei paesi più giovani e geologicamente attivi del Mediterraneo: sarebbe bene adattarsi a questa condizione che non dipende in alcun modo da noi. Mentre da noi dipende la possibilità di convivere armonicamente con la natura di questo paese, se non trascuriamo la memoria e se a ricordarcelo non fossero sempre e solo le vittime.

La Stampa 30.05.12