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"L'arte di ricostruire con le stesse pietre", di Paolo COnti

Si chiama «anastilosi». Gli esempi di Noto, Assisi e San Giorgio al Velabro «Ricostruire com’era e dov’era». Una frase che si è sentita spesso, di fronte alle macerie di torri e chiese, durante questo ultimo tragico terremoto. Espressione ormai abbastanza comune, usata per indicare una precisa scelta tecnico-estetica: riedificare, identico all’originale, un bene architettonico crollato dopo un terremoto, un bombardamento, o un attentato, come avvenne per San Giorgio al Velabro a Roma, chiesa fondata nel VII secolo: la sua facciata duramente ferita da una bomba di Cosa Nostra la notte del 27 luglio 1993 fu ripristinata dopo un lungo, pazientissimo lavoro.
In realtà, «Com’era e dov’era» fu il fortunatissimo slogan scelto dal comitato presieduto dal grande critico d’arte Bernard Berenson, ideato dall’antiquario Luigi Bellini e che coinvolse Firenze, dal 1953 al 1958, in un grandioso progetto: restituire a Firenze il ponte Santa Trinita di Bartolomeo Ammannati (seconda metà del ‘500) distrutto dai nazisti in ritirata il 4 agosto 1944. Ci fu una mobilitazione internazionale. L’American Council of Learned Societies inviò preziosi libri antichi con fonti su misure e riproduzioni esatte. L’architetto Riccardo Gizdulich, ex capo partigiano, diresse i complessi lavori e il 16 marzo 1958 il ponte tornò ai fiorentini. Tutta la città festeggiò simbolicamente la definitiva conclusione dell’emergenza legata alla guerra.
Fu un caso classico, davvero da manuale, di anastilosi (in greco «riedificazione»), ovvero il recupero di un bene architettonico rialzato con i propri stessi materiali caduti a terra, a partire dalle pietre.
Per il ponte dell’Ammannati furono infatti riutilizzate le pietre-forti originali, ripescate nell’Arno, poi numerate. Così come furono ritrovate in acqua le statue delle quattro stagioni del 1608. Il professor Paolo Rocchi, titolare di Consolidamento degli edifici storici all’università di Roma (vincitore del concorso per il progetto di ricostruzione della chiesa di San Gregorio Magno a L’Aquila, si sta occupando anche del progetto strutturale per il Duomo dell’Aquila) propone questa definizione per l’anastilosi: «Rimontare una struttura con i materiali originali curando che, nel rimontaggio, non si alteri rispetto all’originale».
L’anastilosi venne usata, per esempio, negli anni Cinquanta (tra mille polemiche) per il Tempio E di Selinunte, distrutto con gli altri templi da un terremoto probabilmente nel secolo X. Si può lavorare anche per blocchi interi: per San Giorgio al Velabro, come spiega l’architetto Andrea Valerio Canale dello studio Rocchi, «uno degli architravi era crollato restando quasi integro, venne consolidato a terra e ricollocato». Anastilosi anche nel caso internazionale del ponte di Mostar, del XVI secolo, bombardato dalle truppe croato-bosniache nel 1993 e restituito alla sua bellezza nel 2004. Stessa tecnica per un indiscusso capolavoro del ripristino e, insieme, eloquente simbolo della tenacia di una comunità: il duomo di Venzone in Friuli, distrutto dal terremoto del 1976 e ricostruito tra il 1988 e il 1995. Identico discorso per la loggia del Palazzo della Mercanzia a Bologna, del 1300, danneggiata da una bomba inesplosa poi fatta brillare, riedificata subito dopo la Seconda guerra mondiale. Altro risultato straordinario la cattedrale di Noto, crollata nel 1996 anche in seguito al terremoto del 1990, ritenuta perduta per molto tempo ma poi rinata nel 2007 grazie a un’operazione di eccellente qualità e rigore filologico, un caso ormai studiato nel mondo. Ma sono solo alcuni esempi tra i molti altri possibili.
Non sempre l’anastilosi, nel senso più puro e tecnico del termine, è possibile. Dice Rocchi: «Nei tanti dolorosi casi di danni prodotti ai beni culturali da questo terremoto, si può immaginare una ricostruzione fedele all’originale, in parte realizzata con i materiali lasciati più integri dal crollo. Ma sarà difficile sperare di poter trovare blocchi corposi per una vera anastilosi. Chiese e torri della zona, da come ho potuto vedere dalle immagini, erano tutti costruiti in piccoli, normali mattoni». In quel caso si può rialzare la struttura con materiali simili all’originale e sottolineando visivamente l’intervento contemporaneo.
Rocchi contesta la tesi di chi parla di «falso» di fronte a una riproposizione di ciò che si è perduto: «La parola “falso” presuppone il deliberato progetto dell’inganno. Quando si decide per la ricostruzione com’era e dov’era, quindi attenendosi ai progetti e alle fonti iconografiche, non solo non c’è quella volontà ma anzi si sottolinea l’intenzione di aderire pienamente al modello». Questo è avvenuto a Rocchi alla Basilica di San Francesco ad Assisi, soprattutto nella ricollocazione delle tre vele (una affrescata da Giotto, una da Cimabue, e un cielo stellato) di due diverse campate crollate nel terremoto del 1997: duecento metri quadrati di superficie e 220 mila frammenti pittorici rimessi al loro posto dei 300 mila recuperati (Giotto è quasi reintegrato).
Intanto al ministero dei Beni culturali c’è molta preoccupazione: il Consiglio dei ministri, mercoledì scorso, non ha varato l’atteso decreto legge con i primi stanziamenti urgenti destinati al recupero del patrimonio artistico devastato dal terremoto. Al dicastero retto da Lorenzo Ornaghi si aspettava una cifra tra i 30 e i 40 milioni di euro. Non c’è nemmeno il via libera per rimodulare una parte della spesa corrente e destinarla alle missioni straordinarie per la valutazione dei danni: sarebbe urgente disporre di 500 mila euro di fondi già a disposizione del ministero ma che vanno, appunto, «rimodulati» e indirizzati all’emergenza terremoto. E ancora: chi ricostruirà tutte le chiese cadute? Lo Stato concorrerà sicuramente in quota parte. Ma il maggior peso economico graverà sulle diocesi e, quindi, sulla Conferenza Episcopale Italiana. Ma con quali fondi?

Il Corriere della Sera 03.06.12