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"La nostra vita come in guerra", di Gigi Marcucci

«Mi scusi, adesso devo piangere: mi hanno appena detto che la mia casa cadrà». Luisa Turci, sindaco di Novi, passa quasi senza soluzione di continuità dal coordinamento dei soccorsi al dramma personale. La sua voce si rompe, invoca una pausa. Poi il sindaco torna al lavoro, sotto la pioggia torrenziale che dalle prime luci dell’alba sta squassando la Bassa modenese, coprendo con un mantello liquido i teli a “igloo” e le auto trasformate in alloggi di fortuna, a pochi passi dalle casette geometrili; le tendopoli
ricavate nei campi sportivi; i gazebo sistemati davanti alle roulotte per sostituire cucina e sala da pranzo. L’ultima scossa è esplosa circa nove chilometri sotto questo paese di undicimila abitanti. Ha sferrato il colpo di grazia a edifici già compromessi. Tra le macerie questa volta è rimasta solo la speranza. Alimentata e, al tempo stesso, messa alla prova dalla cabala della classifica Richter. Due colpi durissimi il 20 e il 29 maggio, poi lo “sciame” in calando, infine, quando si cominciava a pensare che il peggio fosse passato, la sventola di 5.1 gradi, domenica sera. Ovviamente non prevista ma per la verità neppure esclusa dai simologi. Meglio perdere la fiducia che la vita? Certo, ma la vita è anche poter guardare avanti, sapere che un libro si può ancora sfogliare. La botta delle 21, quella che ha abbattuto la torre dell’orologio, simbolo di Novi, ha riportato tutti a pagina uno. Il terremoto è diventato guerra non convenzionale, cimento di nervi, conflitto psicologico. E il sindaco, che dopo 12 ore di lavoro dorme in una stanzetta alle materne comunali, spiega su Facebook come voltare pagina: «Pazienza se la torre è caduta, i nostri nuovi simboli sono i bambini, la comunità». E riparte da zero, con le verifiche sulla stabilità degli edifici fatte insieme a tecnici del Comune e vigili del fuoco.
Tensione e compostezza si alternano anche sul viso segnato di una giovane donna in attesa di un figlio: vive in auto con la madre e il padre, davanti alla villetta integra, dove però si entra solo per andare in bagno, contando sulla tregua concessa dal nemico invisibile. «Il parto è previsto per il 20 giugno, all’ospedale di Guastalla. Il mio problema è: dopo dove lo porto, in auto?». Ezio, in pensione da 19 anni, racconta come cambiano le abitudini al tempo del terremoto. Mostra le screpolature del suo palazzo, racconta che ora vive a Carpi in casa del figlio di 42 anni. Che mentre aspetta di sapere se l’azienda in cui è impiegato, la Angelo
Po, riaprirà i battenti, non fa altro che controllare se in casa l’impianto del gas è chiuso. «Lo fa anche due o tre volte, poi mi raggiunge e dormiamo in macchina».
Piazza Primo Maggio era il cuore di Novi, ora è un luogo fantasma. Di fianco alla Torre crollata c’è uno stabile grigio, con le finestre che nessuno ha potuto chiudere dopo il 20 maggio, il giorno della prima scossa. Giancarlo e la moglie, dalla macelleria poco distante, ai margini dellae zona rossa, invitano a trascurare un po’ i simboli e a occuparsi di più di ciò che rappresentano.
«La torre la rifaremo, ma con la scossa di martedì scorso io ho perso la mia macelleria. Questa è di mio figlio, stiamo qui con la luce accesa per dimostrare che la vita va avanti. E ce la possiamo
ricostruire solo noi, senza chiese e senza partiti, siano essi di destra o di sinistra»
«La mia casa è crollata una settimana fa, era rimasta danneggiata la prima domenica ma il 29, con il secondo sisma, è rimasto solo un cumulo di macerie. Ho perso tutto, tutto, non ho più nulla di mio. Cosa le posso dire di più?». Maurizio Cavazza, come il sindaco di Novi, è al tempo stesso sfollato e soccorritore. Vive a Cavezzo, dove è responsabile della protezione civile. Al paese si arriva da Novi percorrendo una ragnatela di strade sterrate, tra campi e canali alimentati dal Secchia. In mezzo a cascine crollate e altre miracolosamente rimaste in piedi, lasciandosi alle spalle capannoni sventrati dal sisma, con le forme di parmigiano esposte a sole, vento e rovesci. Il panorama è quello di una città bombardata e si sa che i carabinieri ora cercano negli uffici comunali le pratiche relative agli edifici crollati.Come quel palazzo del centro sopravvissuto a metà, da cui i vigili del fuoco cercano di estrarre le cose utili a chi martedì scorso era uscito per andare a scuola o al lavoro. Solo pochi minuti prima che
crollasse tutto. Roberto è uno dei condomini. Capo magazziniere alla Emotec di Medolla, azienda biomedicale con sede a poche centinaia di metri dalla Haemotronic, dove il 29 sono morti in quattro. «In ufficio è venuto giù tutto, per fortuna ero già in magazzino». Dopo l’ultima scossa, la vita di Roberto e della sua
famiglia è sospesa. Si aspettano notizie dell’azienda, che potrebbe riaprire a Poggio Rusco, pochi chilometri verso Mantova e intanto si cerca di capire chi pagherà la demolizione della casa,
il trasporto e lo smaltimento delle macerie. «Dicono che tocca a noi, ma io al momento ho solo la tuta che indosso: secondo lei posso permettermi di pagare grosse cifre».
Anche in questo caso, le brutte notizie sono arrivate a rate: il tempo di respirare prima del pugno nello stomaco che toglie il fiato. «Dopo la scossa del 20, il palazzo era rimasto in piedi», racconta Roberto, «ci avevano detto che sarebbero stati necessari dei lavori di ristrutturazione e consolidamento». Ma il terremoto del 29 è arrivato prima delle autorizzazioni. E il palazzo si
è afflosciato a metà. Al terzo piano si vede un letto di vimini perfettamente rifatto, affiancato da un baule. Accanto la struttura è integra, le tapparelle sono abbassate e i pompieri si danno da fare per tirare fuori le armi di Mauro Malavolti, un cacciatore. Qualcuno si spinge a fare delle ipotesi, su tralicci mal collegati alle solette, ma il punto ora è un altro. Di questo terremoto si continua a non vedere la fine, e pazienza. Ma dopo la scossa di domenica, ora la fine è difficile persino immaginarla.

l’Unità 05.06.12