attualità, politica italiana

Il Pdl e il virus del «listismo», di Michele Prospero

Si è aperta a destra una discussione esplicita tra due linee politiche piuttosto differenziate nelle loro prospettive.Da una parte c’è chi (Schifani, Alfano) propone uno sbocco politico all’esaurimento del partito personale. E lo fa proponendo uno sbocco politico all’esaurimento del partito personale, con la costruzione di un soggetto organizzato che tronchi con i richiami della foresta del populismo. Dall’altra si collocano le suggestioni di chi (Berlusconi) suggerisce ancora di giocare la carta dell’irregolarità permanente, con l’immaginario dell’antipolitica a cementare la proliferazione di liste civiche a conduzione personale-carismatica.
È evidente che l’ipotesi di schivare le difficoltà strutturali dell’appannamento del capo con una alluvionale offerta di liste micropersonali nasce all’insegna della stanca conservazione dello schema di un duello tra due capi che si contendono il premio di maggioranza. Il «listismo» che oggi imperversa è un fenomeno scivoloso di autorappresentazione di ogni istanza (territoriale, culturale, economica) che può distruggere qualsiasi velleità di ricostruire un sistema politico di tipo europeo.
La considerazione del vantaggio tattico, che potrebbe apportare l’apparentamento con un grappolo di liste civiche, andrebbe sempre congiunta alla valutazione del risvolto sistemico dell’accorgimento preso. L’inconveniente principale del «listismo» è quello di incoraggiare uno smembramento dal basso della funzionalità del governo parlamentare, di per sé malandato.
Il listismo dal basso (dei beni comuni, della legalità, dei sindaci etc.) accentua la deflagrazione del Parlamento e quindi coopera con il listismo dall’alto sognato da Berlusconi per l’evocazione magica di una qualche soluzione presidenziale al disordine organico delle Camere. Se il Parlamento non raffredda l’autorappresentazione di ogni credenza con dei grandi soggetti politici organizzati, sfuma rapidamente la sua centralità sistemica. Una deriva assembleare con sigle monotematiche e cartelli personali è la morte sicura della rappresentanza.
O il Parlamento trova da sé un ordine, e quindi ricostruisce attorno a grandi partiti le differenze di cultura esistenti nella società, oppure alla sua irrimediabile decadenza non c’è altra cura che il capo carismatico. Su questo gioco al deconsolidamento democratico punta il cavaliere. Il regime parlamentare non può convivere con la frantumazione, il sistema presidenziale invece (in apparenza) sì, perché soffoca la babele della rappresentanza con i muscoli della carica monocratica.
La proliferazione di liste civiche auspicata da Berlusconi significa soltanto attestare che i partiti non riescono a contenere le spinte culturali nuove e quindi sono costretti ad appaltare ad altri soggetti l’intercettazione delle istanze di innovazione (di persone, di idee, di metodi, di obiettivi). Un listone unico (e non un partito grande) è nella cattiva tradizione del ventennio. Questa minestra riscaldata (tutti insieme in uno stesso simbolo al voto e poi subito in ordine sparso in aula) non introduce alcun antidoto ai fallimenti delle coalizioni spurie della seconda Repubblica.
Un partito che si lascia affiancare da liste civiche amiche, e si rassegna a una cura dimagrante, introduce un elemento di criticità nella ineludibile ristrutturazione del sistema politico e non dà risposte credibili al timore che una coalizione di microliste eterogenee non sappia poi garantire la governabilità. Un partito più piccolo, attorno al quale ruota un arco ampio di alleati e di liste civiche d’area, vince (nel senso però che il voto elegge un qualche sindaco d’Italia) ma non risolve affatto l’enigma del ventennio, che reclama una trasparente spinta aggregativa sorretta da grandi partiti rinnovati.
Regredire dallo stato di (potenziale) grande partito a quello di una lista (unica) o di collante di un drappello di liste civiche coordinate alla rinfusa rallenterebbe la ricostruzione di un sistema politico dal profilo europeo.
Quale che sia la tecnica elettorale, un grande partito non deve mai rinunciare alla vocazione maggioritaria (ovviamente bene intesa, che non rinuncia ad alleanze credibili se necessarie) e al ripristino di legami vitali con specifiche porzioni della società. Ma a destra ci sono davvero le forze culturali per sorreggere un partito vero e per accantonare le sirene del populismo che preferisce estrarre dal cilindro delle offerte simboliche sempre ritoccate?

l’Unità 08.06.12