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"Politica industriale, un dossier chiuso da oltre dieci anni", di Paolo Bonaretti

Siamo all’allarme rosso. La crisi che la manifattura sta attraversando rischia di mettere in discussione l’identità e il ruolo che il nostro Paese ha nell’economia mondiale, lasciando di fronte a noi una prospettiva di vuoto. La crisi dell’industria sta compromettendo gravemente la competitività del lavoro e delle imprese italiane, dell’insieme della nostra economia, i livelli occupazionali, di consumo e di reddito delle famiglie, del sistema di welfare ed in generale della coesione sociale del Paese. L’indice della produzione industriale scende di quasi 2 punti in un mese e del 9,2% su base annua, il peggior risultato degli ultimi anni. Ma il dato più preoccupante, ormai drammatico è che l’indice, sta scendendo ormai ininterrottamente da 12 mesi senza alcun segno di rallentamento, anzi. Insomma, ci siamo ormai dimenticati della timida ripresa della produzione del secondo semestre del 2011 e ci ritroviamo ancora sotto di 16 punti (!) percentuali rispetto al livello del 2005: un disastro. Un ruolo esiziale lo ha giocato e lo gioca la colpevole assenza di un quadro di riferimento per le politiche industriali. Il dossier della politica industriale italiana rimane ormai inesorabilmente chiuso da oltre 10 anni (fatta salva l’apprezzabilissima ma breve eccezione del secondo governo Prodi con Industria 2015, poi boicottata e affossata). Gli altri Paesi europei in questi anni hanno investito tra i 12 (la Francia ) e i 15 miliardi all’anno (la Germania) per stimoli di politica industriale, prevalentemente dedicati alla innovazione e allo sviluppo della ricerca e del lavoro della conoscenza. Questa settimana la Cina ha annunciato un programma di stimoli per 300 miliardi. L’Italia da almeno 5 anni zero; sia per la dimensione finanziaria sia per la definizione di un quadro strategico di priorità, traiettorie e strumenti. Encefalogramma piatto. La discussione degli ultimi 8 mesi sulla crescita è paradossale, mentre ogni giorno le imprese e i lavoratori cadono sul campo, si intavolano interminabili minuetti tra ministeri, su regole contabili e conflitti di competenze, giochi delle tre carte sulle risorse e sui fondi. E quando qualche voce dissonante, viene anche dal mondo delle imprese, allora il premier si impermalosisce e lamenta la mancanza di appoggio dei poteri forti. Se voleva essere ironico non gli è riuscita bene: nessuno oggi ha voglia di ridere. Il problema non è se Passera ha i soldi e Grilli non glieli vuole dare. Il problema è che Passera non ha offerto alcun concreto quadro di riferimento prioritario e strategico che possa supportare il «rinascimento dell’ industria» e che il Tesoro è contrario a qualsiasi misura di politica industriale attiva. La discussione sul credito di imposta per la ricerca ne è un esempio. La proposta del Ministero dell’Economia diffusa a mezzo stampa (plafond di 25 milioni!) è offensiva per l’intelligenza degli italiani e per le imprese che seriamente stanno investendo in innovazione ed internazionalizzazione. Il credito di imposta per la ricerca è una misura per sua natura strutturale. Le “coperture” non possono dunque essere ricercate se non negli effetti stessi che la misura genera, non possono essere definiti tetti di spesa. Il Presidente Monti dovrebbe tenere la catena molto più corta ai nostrani cani da guardia del rigore e dell’austerità, altrimenti saranno lui e il suo governo a subire un crollo irreversibile di una credibilità (peraltro già compromessa non poco) presso il mondo dell’impresa e del lavoro. È l’ora di fare immediatamente delle scelte di politica industriale. Il credito di imposta sulla ricerca senza vincoli assurdi. Una politica industriale ecologica per diventare il Paese più competitivo sui prodotti a basso uso di energia e materie prime. La scelta di settori e programmi strategici e l’investimento sulla crescita la ricerca e innovazione delle imprese: nella chimica verde, nella conversione energetica e ambientale del costruito, nella mobilità sostenibile, nello sviluppo intelligente delle comunità e delle città. Nella ricostruzione innovativa e internazionalizzata delle filiere del made in Italy. Bisogna fare anche scelte innovative e forti: superando la strozzatura del credito trasformandone parte in capitale di rischio, incentivando ulteriormente la crescita dimensionale e l’aggregazione delle imprese. Certo ci vogliono anche risorse, l’industria e il lavoro industriale non possono aspettare, il pareggio di bilancio invece, se non si farà nel 2013 si farà nel 2014. Certamente non si farà mai se le entrate fiscali continueranno a scendere. Il nostro è un Paese manifatturiero, sappiamo produrre con capacità tecnologica, lavoro qualificato e creatività, è quello che sappiamo fare e fare bene; è la nostra storia e il nostro futuro, non possiamo né vogliamo rinunciarvi.

l’Unità 10.06.12