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"Per fronteggiare la crisi serve un Piano del Lavoro", di Laura Pennacchi

Il dinamismo impresso da Bersani all’iniziativa politica del Pd con la proposta congiunta «carta di intenti/primarie aperte» rilancia l’elaborazione valoriale, progettuale, programmatica, nel cui ambito le problematiche di medio periodo dovranno inevitabilmente misurarsi con quelle immediate. L’emergenza economico-sociale da fronteggiare è di proporzioni immani. Se guardiamo alla catastrofe che incombe sulla Grecia e al possibile dilagare della crisi bancaria spagnola, vediamo che non è sconfitto il rischio di una deflagrazione dell’euro e dell’intera Europa. La recessione avanza in tutti i Paesi europei e in Italia il cui Pil si prevede crolli nel 2012 fino al -2% non abbiamo ancora raggiunto l’apice perché il picco negativo è atteso verso la fine dell’anno e nei primi mesi del 2013, quando entreranno in vigore le misure di austerità recessiva già prese nel 2011. E il governo Monti si è impegnato ad adottare se niente varierà nel quadro istituzionale, per esempio con un rinvio nel raggiungimento del pareggio di bilancio ben altri 40 miliardi netti di manovra finanziaria. A dare la misura della gravità è l’esplosione della disoccupazione: dei 56 milioni di persone senza lavoro nel mondo per diretta conseguenza della crisi più della metà si concentra in Europa e di questa quasi un terzo in Italia (7-8 milioni sommando ai disoccupati espliciti i cassintegrati e gli scoraggiati). Una situazione eccezionale imporrebbe politiche economico-sociali eccezionali, quale può essere un «Piano straordinario per la creazione diretta di lavoro per giovani e donne», ispirandosi al New Deal di Roosevelt, come fa esplicitamente Obama negli Usa. Questa scelta rappresenterebbe la giusta alternativa anche alla sbagliata perché assistenziale e meramente «risarcitoria», non autenticamente «promozionale» parola d’ordine del «salario sociale» che torna ad aleggiare nella sinistra radicale. Il punto è che per trattare lo sconvolgimento epocale che la crisi globale sta provocando non bastano strategie difensive, occorre una rivoluzione culturale. Oggi assistiamo a un’ondata di rigetto verso il capitalismo deregolato, ma essa non costituisce un’alternativa. Al contrario, sono in gioco modelli di economia e di società con diverse implicazioni in termini di occupazione, di diritti fondamentali di cittadinanza, di regolazione dei mercati, di gestione dell’economia, di riforma della pubblica amministrazione, di modellazione delle visioni dell’impresa, di legittimazione della tassazione e della redistribuzione. A fronte di tutto ciò si manifesta l’inadeguatezza del governo Monti, soprattutto in termini di profilo culturale, la cui insufficienza è già emersa con la vicenda pensionistica. Per la quale la questione degli «esodati» i 300.000 stimati dovendo essere correlati a leve di pensionamento di 100.000 persone annue si configura non come un semplice «buco» ma come il verdetto di «fallacia» dell’intero disegno di riforma (senza dire che nulla dei 20 miliardi di risparmi in pochi anni viene destinato ad affrontare il vero problema lasciato insoluto dall’efficace processo riformatore precedente, e cioè le basse prestazioni pensionistiche future per i lavoratori oggi giovani). In generale, il mix «rigore più liberalizzazioni», nell’affidare il rilancio della crescita solo all’approfondimento concorrenziale del mercato interno, ripropone una visione «ordoliberale» a la Hayek secondo cui l’imputata spiazzante l’investimento privato è sempre la spesa pubblica specie sociale, ridurre la quale sarebbe il prerequisito primario per liberare l’offerta, sollecitare la concorrenza e la competizione, stimolare l’investimento privato e così alla fine attivare magari dopo una ventina d’anni la crescita. Al contrario, oggi abbiamo bisogno di un «big push», una grande spinta, possibile solo con un eccezionale intervento pubblico. Oggi si riproducono condizioni analoghe a quelle studiate da Keynes: la distruzione di valore patrimoniale netto e l’illiquidità feriscono tutti gli operatori, gli investimenti crollano e i profitti flettono, la riduzione del reddito e la disoccupazione di massa scaturiscono dalla trasmissione delle turbolenze finanziarie all’economia reale e dalla deflazione da debito, anche la liquidità creata dalle politiche non convenzionali della Bce non prende la via degli investimenti. Bisognerebbe ricordare che Keynes negli anni ’30 giunse a parlare di «socializzazione dell’investimento», che più tardi Minsky non a caso riscoperto ora anche dall’Economist riprese come «socializzazione della banca» (e Obama crea oggi una banca pubblica per le infrastrutture) e «socializzazione dell’occupazione».

l’Unità 11.06.12