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"Precari, un concorso vinto non basta", di Mariagrazia Gerina

“Papà Cococò”, lo chiama il figlio, che ha un anno e mezzo. «È bene che impari subito come vanno le cose in questo Paese: quando sarà grande però farò di tutto perché se ne vada all’estero, come avrei dovuto fare io», si rammarica Alberto, 39 anni, ricercatore precario, che, esasperato, si chiede fino a quando dovrà scontare sulla sua pelle l’ennesimo paradosso italiano che si scarica sulla sua generazione. Perché il governo, impegnato nella spending review, non trova neppure il tempo di firmare il via libera ad un migliaio di vecchie assunzioni. L’arretrato risale al 2009 e precede di poco il blocco del turn over deciso con la finanziaria Berlusconi-Tremonti di tre anni fa. Quei mille posti, quindi, lasciati vuoti da altrettanti ricercatori andati in pensione, sono gli ultimi sfuggiti alla tagliola della legge 133. Tutti i posti che si libereranno in seguito saranno soggetti alla regola che fissa il ricambio generazionale a venti assunzioni ogni cento pensionamenti. Più che un ricambio uno stillicidio. Tanto per dare una idea della sproporzione: i precari che lavorano negli enti di ricerca sono circa 12mila e hanno ormai quasi raggiunto i lavoratori assunti a tempo indeterminato, fermi a quota 17mila. Con diecimila posti persi negli ultimi dieci anni. Questo per dire cosa significano per la ricerca quei mille posti strappati al blocco del turn over. Ma in realtà, chi già si immaginava “graziato” da quest’ultima goccia, è finito in una vicenda ancora più kafkiana. Perché i soldi per sbloccare almeno queste ultime assunzioni possibili gli enti ce l’hanno. Soldi veri, non soggetti a vincoli di spesa. Non c’è nessuna legge che possa impedire agli enti di spenderli. Solo che il governo continua a rinviare il via libera al decreto che autorizzerebbe almeno le assunzioni a Istat, Iss, Ingv e Cra. Mentre il secondo decreto per sbloccare le assunzioni in tutti gli altri enti non è neppure pronto. «Non c’è urgenza, quando terminerà la spending review ce ne occuperemo», si sono sentiti rispondere in sostanza i delegati sindacali, che ieri sono stati ricevuti al Ministero dell’Economia. Mentre i precari in sit-in bloccavano via XX Settembre. Quelli dell’Istat avevano dei foglietti gialli e blu con cui hanno disegnato una torta: i gialli sono i precari, l’ultima stabilizzazione risale al 2009, dopodiché i foglietti gialli hanno ripreso a moltiplicarsi e ora sono il 20% del totale. Manuela, 38 anni, un figlio solo («il secondo è difficile decidere di farlo in queste condizioni»), in teoria fa parte dell’ultima “infornata”. In realtà, lavora per l’Istat dal 2003: laureata, per 7 anni ha fatto parte della rete di rilevatori impiegati per l’indagine sulle forze lavoro. Quando tre anni fa, è subentrata l’Ipsos, rischiava di restare a casa. Ma, a fine 2010, ha vinto un concorso ed è ri-entrata all’Istat. Come tempo determinato. Poi è arrivato il concorso per 115 posti a tempo indeterminato. Emanuela ha fatto anche quello. Ma se il contratto a tempo determinato che le scade il 30 settembre dovesse finire prima che il governo si decida a sbloccare le assunzioni? Finisce che quella è la vera frontiera da difendere con i denti. «Da noi va anche peggio: gli strutturati sono 800, i precari 480», commenta Alberto. Sconfortato all’idea di dover scendere ancora in piazza, chissà fino a quando, prima di ottenere quello che in un paese normale, con il suo curriculum, avrebbe già raggiunto da un pezzo. O magari solo per non perdere quello che ha adesso. Eppure «Papà Cococò» ha tutte le carte in regola. Specializzato in ingegneria biomedica. Per un po’ ha tentato la carriera universitaria. Poi ha lasciato perdere e ha fatto un concorso per entrare a tempo determianto all’Ispesl, l’Istituto per la sicurezza sul lavoro. L’ha vinto ed è contento di quello che fa. Si occupa di prevenzione. Ha studiato come predisporre percorsi tattili per rendere i luoghi di lavoro accessibili ai non vedenti. E di come consentire anche a chi soffre di Parkinson e di atassia di lavorare, mettendo a frutto le proprie abilità residue. «Un bel mestiere», ripete Alberto. Ma a lui il lavoro (quello vero) chi lo rende accessibile?

l’Unità 15.06.12