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"Il dovere della responsabilità", di Carlo Galli

E’ morto, con D’Ambrosio, un capace e leale servitore dello Stato, un magistrato integerrimo che tra l’altro ha collaborato direttamente, a suo tempo, alla stesura dell’articolo 41bis, strumento cruciale della lotta alla mafia. Tutti se ne dolgono, senza infingimenti, come uomini civili e come cittadini democratici. E’ morto forse di crepacuore, per quanto se ne può sapere; in ogni caso, le ultime settimane della sua vita sono state segnate da quelle che un comunicato del Quirinale – di inusitata durezza, vibrante di emozione e di violento dolore – ha definito “ingiuriose insinuazioni” a suo carico.

Da chi questi attacchi siano provenuti quel comunicato non dice, com’è ovvio. Ciascuno può immaginarlo, se crede. Certo non da coloro che, in questo come in altri giornali, hanno rilevato nella vicenda delle telefonate del senatore Mancino ai collaboratori del Capo dello Stato, e anche nelle loro risposte – che forse non potevano non esserci, dato il rango dell’interlocutore – , comportamenti imprudenti e impropri. Nei quali può capitare a chiunque di incorrere, tanto più facilmente quanto più sono delicate le cariche che si ricoprono, e complesse le circostanze che si presentano. Se si operano le opportune distinzioni si coglie bene, in ogni caso, che un’imprudenza non è un reato, e che non le assomiglia neppure. Tanto è vero che D’Ambrosio, sentito come testimone dai magistrati che indagano sulla trattativa Stato-mafia, non è stato rinviato a giudizio;

com’è invece accaduto, per falsa testimonianza, al senatore Mancino. D’Ambrosio, insomma, è morto senza che i magistrati – che hanno meritoriamente svolto il loro dovere senza guardare in faccia nessuno – eccepissero alcunché su di lui, dal punto di vista penale.

Gli attacchi veri e propri venivano invece da alcuni organi di stampa e da alcune parti politiche; non certo dai magistrati né dalla stampa che responsabilmente esercita il proprio diritto – dovere di critica e di informazione. Sia chiaro: la libertà di stampa è un bene primario in una democrazia; è una delle fonti della libertà civile – Kant diceva che la penna è il palladio della libertà – . Nessuno può pensare che per riguardi verso questo o verso quello essa debba essere limitata, compressa, attenuata. Ma è anche vero che della libertà di stampa va fatto un uso responsabile: che non vuol dire accomodante; vuol dire che di toni, modi, misure (o dismisure) della parola pubblica risponde chi quella libertà esercita, chi se ne serve. E ne risponde solo secondariamente in sede giudiziaria; in primo luogo, chi fa pubblico uso della ragione ne risponde davanti all’opinione pubblica, nello spazio pubblico in cui quella parola è stata pronunciata, in cui quegli argomenti sono stati avanzati. Se l’uso della libertà di stampa da parte di qualcuno, insomma, è stato improprio, lo decideranno prima di tutto i cittadini – quella parte di opinione pubblica che è abbastanza matura da giudicare se quella libertà non è stata confusa con la strumentalità, se la ragione, che può essere anche polemicamente orientata, non è stata invece trasformata in un teorema politicamente preconfezionato – .

Allo stesso modo, non c’è da stupirsi se la politica, come la stampa, è fatta anche di lotta e di attacchi. Ma anche la politica, pur nella sua durezza, pur nella sua intensità conflittuale, deve essere responsabile. Anche la politica deve rispondere ai cittadini. E quindi, se è sacrosanto pretendere che lo Stato cerchi tutta la verità sul proprio passato, cioè sulle trattative con la mafia, se è giusto polemizzare aspramente contro chi quella trattativa ha condotto e avallato e anche contro chi frenasse il lavoro della magistratura, non deriva dalla giustizia di questa causa – da tutti condivisa – che sia lecito servirsi di un comportamento imprudente di qualcuno (del tutto irrilevante) per attaccare l’intera Casta. E non deriva che sia giusto insinuare – attraverso la calunnia contro D’Ambrosio – dubbi sulla correttezza perfino di Napolitano. Se questa è politica, è cattiva politica. è una politica che alimenta la più primitiva antipolitica, il più qualunquistico populismo, credendo di servirsene, e non sa che invece corre il rischio di finirne vittima.

Forse i cittadini, anche i più inferociti contro il “sistema”, giudicheranno infatti sbagliato attaccare D’Ambrosio per insidiare il Capo dello Stato; e forse respingeranno come del tutto inutile una politica che si accanisce strumentalmente contro le imprudenze dei galantuomini anziché – e sarebbe questo il suo ruolo primario – analizzare (se lo sa fare) e cercare di risolvere (se ha qualche idea non meramente propagandistica al riguardo) i terrificanti problemi che l’Italia ha oggi davanti a sé. Se non altro, vale la pena di adoperarsi perché ciò accada.

La Repubblica 27.07.12