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"Ilva, una sfida per Taranto e l'Italia", di Guido Ruotolo

L’Ilva è a un passo dalla chiusura, avendo il gip deciso il «blocco delle attività» di cinque aree dell’acciaieria. E se muore la fabbrica muore la città, Taranto. Ma nello stesso tempo il ricatto del lavoro al Sud non può più consentire che si lavori a tutti i costi. Anche a costo di morire di lavoro.
E’ terribile il ricatto. Ne sanno qualcosa i sopravvissuti di Casale Monferrato che hanno vissuto con l’Eternit. E che solo quando la fabbrica della morte era chiusa ormai da anni hanno avuto giustizia. Adesso, la vicenda di Taranto è più complessa. Intanto perché nello stabilimento lavorano, tra diretti e indiretti, quasi 15.000 addetti. E per la città sarebbe una tragedia la perdita di 15.000 posti di lavoro. Poi perché si scatenerebbe un effetto «domino» con la chiusura di altri impianti Riva che producono tubi e acciai, e le aziende clienti dell’Ilva soffrirebbero per la mancata consegna delle materie prime.

Ma come per l’Eternit di Casale Monferrato, così l’inchiesta della procura di Taranto ha accertato che la presenza dell’acciaieria ha provocato decine di decessi di cittadini che hanno respirato i veleni dell’Ilva.

La città naturalmente si interroga e assiste agli eventi. L’anno scorso ha dovuto prendere atto che il Mar Piccolo era «avvelenato» a tal punto che tutte le coltivazioni di cozze sono state distrutte. E’ accaduto anche quest’anno. Sembra che la fonte dell’inquinamento sia l’Arsenale militare.

Da sempre Taranto ha accettato la grande acciaieria che garantisce lavoro agli operai pugliesi, della Basilicata e persino della Calabria. Anche sapendo del prezzo da pagare. Quand’era Italsider, azienda pubblica, era un “«ssumificio», le assunzioni passavano attraverso il ministero delle Partecipazioni statali e dei ras democristiani locali. La produttività era un concetto astratto. Nella fabbrica prosperavano ben 546 imprese d’appalto, comprese quelle in odore di quarta mafia, di mafia pugliese. Si moriva di fabbrica e per la fabbrica, ma politici e sindacati erano impegnati a garantire lavoro.

Poi è arrivato il padrone delle ferriere. L’inglese che si insedia in India: Emilio Riva che si ritrova la più grande acciaieria d’Europa tra le mani. Per nulla. E si è continuato a morire di fabbrica e per la fabbrica.

Ma adesso che si stava intervenendo per sanare le ferite dell’inquinamento, con un’azione congiunta tra governo, regione, azienda, enti locali e sindacati, arrivailprovvedimentodelgip.Chissàperchéitempi della giustizia sono sempre così anacronistici. Patron Riva si è fatto da parte, ha nominato ai vertici dell’Ilva l’ex prefetto Bruno Ferrante. Il governo dei «tecnici» con molta sensibilità politica ha capito l’urgenza di investire 330 milioni per l’ambiente di Taranto. Il gip ha posto una condizione perché l’Ilva rimanga aperta: che si rendano compatibili con l’ambiente i reparti e le aree di produzioni. E’ una sfida che si deve accettare. Per Taranto e l’Italia. E ieri sera, nel corteo operaio che ha invaso la città, lo slogan che si gridava parlava di questo: «Lavoro e ambiente, connubio intelligente».

La Stampa 27.06.12