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"L'intervento di Draghi può salvare l'Europa", di Eugenio Scalfari

Domenica scorsa scandivamo le tappe e il calendario necessari per costruire quell’Europa di cui furono poste le premesse con i Trattati di Roma del 1957 e con la nascita della Comunità del carbone e dell’acciaio; poi con il libero mercato dei capitali e delle merci; infine col trattato di Maastricht dell’87 e col sistema monetario che sboccò nel ’98 nella moneta comune e nella Banca centrale europea.
Un percorso molto lungo, più di mezzo secolo, del quale oggi si analizzano le carenze, gli errori, i passi del gambero che ne hanno accompagnato la nascita e la crescita. Molti indicano e denunciano che l’Europa è nata male, è un’entità sbilanciata da tutti i lati, zoppa, gobba, deforme, con istituzioni-fantasma scritte sulla carta ma prive di autorità sostanziale, detenuta dai governi nazionali e affidata ad una tecnostruttura priva di autorevolezza e di visione politica.
L’Europa insomma consiste in un patto tra i governi che hanno mantenuto integra la propria sovranità, decidono all’unanimità o non decidono, conservano piena autonomia nella politica estera, nella difesa, nel fisco, nell’immigrazione, nell’educazione, nella politica industriale e nell’assistenza. Insomma in tutto. Erano 5 Stati all’inizio; adesso sono diventati 27, dei quali 17 hanno la moneta comune. E questa è l’Europa i cui confini ormai coincidono con quelli tradizionali del continente, ma la cui sostanza è appunto giudicata zoppa, gobba, deforme e comunque incapace di progredire verso quello che fu il sogno dei suoi fondatori.
Ovvero uno Stato federale che unisca il continente in un’epoca globale che non lascia posto a entità statali di piccole
dimensioni.
Io non sono di questo parere. Non penso che il mezzo secolo trascorso sia un periodo eccessivamente lungo: i grandi Stati nazionali, la Francia, la Spagna, l’Inghilterra, gli Stati Uniti d’America, impiegarono secoli prima di imporsi al potere sovrano dei loro vassalli e agli Stati confederati con uno Stato federale. Mezzo secolo non è molto ed ha comunque realizzato un periodo di pace e di amicizia tra Entità che erano vissute in guerra tra loro per oltre un millennio. La pace fu soltanto un breve intermezzo, la guerra fu la condizione permanente.
L’Europa – è vero – vive e opera nel quadro di un assetto intergovernativo e nell’economia globale quell’abito risultata sempre più stretto e sdrucito per contenere la realtà circostante. Il vero problema dunque è quello di passare gradualmente da un sistema di Stati confederati ad uno Stato federale. La crisi che sta scuotendo tutto l’Occidente e addirittura tutto il pianeta da cinque anni e in particolare negli ultimi due, ha questo di salutare: gli scossoni hanno dimostrato la fragilità del sistema confederato.
O salta tutto e gli staterelli europei precipiteranno nell’irrilevanza, o la costruzione federale acquisterà slancio ed energia propulsiva.
E chi può guidare quest’evoluzione che non ha alternative se non la sola istituzione europea indipendente dai governi che si disputano una sovranità sempre meno significante?
Chi, se non la Banca centrale europea? Questa verità l’abbiamo enunciata molte volte su queste pagine e da ultimo domenica scorsa, motivando anche con il calendario. Si prevedono da cinque a dieci anni per la nascita graduale dello Stato federale. Si prevede a dir poco un anno per l’unione bancaria. Ma nel frattempo la mazza ferrata della speculazione batte quotidianamente sulla fragilissima incudine della finanza, dei tassi di interesse, dell’economia reale.
E ancora una volta, chi può e deve intervenire
da subito per frenare il martello
e rafforzare l’incudine?
Chi, se non la Bce? E se non ora, quando? Così terminava l’articolo sopracitato. La risposta è venuta, non certo al nostro appello ma per l’incalzare dei fatti. Per la tremenda energia
distruttiva e paradossalmente salvifica della crisi. Se non ora, quando? Ora. Questa è stata la risposta di Mario Draghi adombrata nell’intervista a “Le Monde” ed enunciata esplicitamente nella riunione di quattro giorni fa a Londra di fronte ad una platea di banchieri internazionali.
Ora. Le Borse sono risalite, lo “spread” italiano è sceso da 520 a 450 solo per l’annuncio di una nuova politica della Bce. I falchi della Bundesbank protestano ma la cancelliera e il suo ministro delle Finanze incoraggiano Draghi anche sotto la spinta dell’ Spd tedesca.
Ora. Ma come?
* * * La Bce non può intervenire alle aste dei titoli con le quali i vari governi finanziano il loro debito e il loro fabbisogno, le è esplicitamente vietato dal suo statuto; ma ha almeno altri quattro modi di intervento. Il primo, già usato da Draghi nell’inverno 2012, consiste nel finanziamento del sistema bancario europeo. Tra il dicembre e il gennaio scorsi la Bce prestò alle banche europee 1.000 miliardi di euro per 3 anni al tasso dell’1 per cento. Fu un respiro di sollievo anche se le banche di quei prestiti (in larga misura utilizzati dal-l’Italia e dalla Spagna) se ne servirono soprattutto per riacquistare le proprie obbligazioni in circolazione sul mercato a prezzi molto ridotti e, in modesta misura, nell’aiutare il Tesoro alle aste di emissione. Poco o nulla alla clientela. Il grosso di questi prestiti restò depositato presso la stessa Bce ad un tasso “overnight” dello 0,25 per cento.
Il secondo modo di intervenire della Banca centrale è la fissazione del tasso di sconto. Un anno fa era all’1,50, poi è sceso all’1 e pochi giorni fa allo 0,75. Ulteriori diminuzioni sono probabili.
Il terzo modo, già usato da Trichet nella primavera del 2011 e poi da Draghi nell’autunno di quello stesso anno fu l’acquisto di titoli di debiti sovrani sul mercato secondario. Fu praticato su vasta scala per calmierare gli spread soprattutto italiani e spagnoli e in cifre molto più modeste, francesi.
Infine il quarto modo per il quale tuttavia è necessaria l’autorizzazione dell’Ecofin dell’eurozona e della Commissione consiste in una sorta di licenza a finanziare il fondo “Salva Stati” affinché intervenga sul mercato primario assorbendo parte delle nuove emissioni di titoli a tassi cedenti, per poi ricollocarle presso le banche e gli investitori privati.
Le intenzioni di Draghi, per quanto se ne sa, sono di intervenire nella seconda, terza e quarta delle operazioni sopra indicate. La potenza di fuoco di cui dispone è enorme. Il terzo intervento, l’acquisto di titoli sul mercato secondario, è sicuro e avrà probabilmente inizio il 3 agosto subito dopo la riunione del giorno prima del consiglio direttivo della Bce. Il ribasso ulteriore del tasso di sconto avverrà subito dopo. La richiesta della licenza al fondo “Salva Stati” probabilmente in settembre.
Questo è il piano. Il suo solo preannuncio ha fatto scendere gli spread italiano e spagnolo d’un centinaio di punti in quarantott’ore e nello stesso breve tempo ha fatto guadagnare il 6 per cento a Piazza degli Affari e a tutte le Borse europee anche nella City e a Wall Street. La speculazione, quella della schiera dei fondi d’assalto e delle banche multinazionali, ha abbassato la testa anche se la Bce finora non ha compiuto alcun intervento e li ha soltanto preannunciati.
Personalmente ho sempre dichiarato il mio ottimismo sulla tenuta dell’euro.
Ho anche scritto che un euro che non salga oltre 1,25 di cambio rispetto al dollaro e magari scenda anche sotto l’1,20, se non è spinto al ribasso da ondate di panico rappresenta uno stimolo positivo per le esportazioni europee verso l’area del dollaro.
Naturalmente gli interventi della Bce sul mercato sono soltanto la precondizione d’un riassetto generale del sistema Europa. I passi successivi – già in programma – sono l’unione bancaria, necessaria per svincolare il sistema delle banche dai debiti degli Stati, e poi la nascita d’un vero Stato federale europeo, prevedibile tra il 2018 e il 2022. Molte tappe e alcuni ostacoli procedurali debbono essere ancora superati e la classe politica europea (cioè dei singoli paesi membri) dovrà essere all’altezza della situazione. Soprattutto dovrà crearsi una cittadinanza e un’opinione pubblica europea che incalzi e selezioni una classe dirigente capace di portare a termine quel compito che richiede grandissimo impegno e altrettanto grande visione politica e competenza.
Quest’aspetto è fondamentale. Tra le zoppie vere e presunte dell’Europa odierna la maggiore e la più decisiva anche se assai poco denunciata, è per l’appunto la carenza di un sentimento diffuso di cittadinanza europea e la latitanza di una classe dirigente adeguata: i politici, ma non soltanto, anche
imprenditori, associazioni sindacali, giornalisti, scrittori civilmente impegnati, giuristi, scienziati. E studenti.
La creazione dello Stato europeo è una rivoluzione e le rivoluzioni non sono mai avvenute senza la partecipazione dei giovani. Fu così per il Risorgimento, e fu così per la rivoluzione europea del 1848. Ed è stato così per la Resistenza europea contro il fascismo e il nazismo. Fu così nelle rivoluzioni di Budapest del ’56, di Praga nel ’68 e soprattutto della Polonia di Solidarnosc. Ed è stato ancora così per le rivoluzioni arabe tuttora in corso.
Non sempre l’entusiasmo dei giovani di cambiare l’esistente ha chiari gli obbiettivi da perseguire. Nel ’68 l’entusiasmo era forte ma gli obiettivi erano molto confusi. La conseguenza fu che quella stagione si impantanò e alcune sue schegge impazzirono nel terrorismo e nel sangue. Questo è il rischio, a fronte del quale tuttavia c’è la necessità che i giovani siano la forza che aiuta a muovere la ruota della storia perché il futuro saranno loro a viverlo e sarà anche loro la responsabilità d’averlo fatto normale oppure zoppo gobbo e deforme.
* * * Qualche parola che l’attualità mi impone perché proprio mentre scrivo queste righe si sta celebrando il funerale di Loris D’Ambrosio, consigliere giuridico del Quirinale.
Che sia stato aggredito da una campagna di insinuazioni per le sue telefonate con Nicola Mancino non c’è dubbio alcuno. Che sia attribuibile a quella campagna l’infarto che l’ha fulminato è un’ipotesi ma è certo che quelle insinuazioni e quelle vere e proprie accuse lo avevano profondamente ferito. Gli autori sono noti: in particolare alcuni giornali e giornalisti e uomini politici che non si sono limitati ad insinuare e ad accusare il consigliere giuridico del Quirinale ma sono andati molto più in su, accusando il Capo dello Stato di ostacolare l’accertamento della verità sulla trattativa Stato-Mafia che si sarebbe svolta tra il 1992 e il ’94.
I nomi di questi giornali, giornalisti e uomini politici sono già stati fatti. Anch’io li ho fatti poiché la completezza dell’informazione fa parte della nostra deontologia e viene prima di eventuali rapporti di amicizia privata.
I procuratori di Palermo non possono essere tacciati d’aver fatto campagna contro D’Ambrosio. L’hanno interrogato, ma questo entrava nei loro diritti-doveri di titolari dell’azione penale. I loro uffici tuttavia hanno provvisto
di munizioni alcuni dei giornali che si sono distinti in questa campagna. Dico i loro uffici. Può esser stato un addetto alla polizia giudiziaria, un cancelliere, un usciere dedito a frugar nei cassetti e nelle casseforti.
Oppure uno di quei procuratori che comunque avrebbero avuto il dovere di aprire immediatamente un’inchiesta sulla fuga di notizie secretate. Ricordo che la notizia dell’intercettazione indiretta del presidente della Repubblica è stata data addirittura da uno di quei quattro procuratori in un’intervista al nostro giornale.
C’è altro da aggiungere? Sì, c’è altro. Il procuratore aggiunto di Palermo sostiene – nell’intervista che troverete su queste stesse pagine – che se l’intercettazione indiretta al Presidente della Repubblica risulterà coperta dalla ragione di Stato, la Procura rispetterà quella ragione e farà un passo indietro. Bene. Ma fa un grave errore se parla di ragione di Stato. Nessuno, e Giorgio Napolitano che ha invocato l’accertamento della verità meno che mai, ha parlato di ragione di Stato. Si parla invece del divieto di intercettazione del Presidente, sia diretta che indiretta.
Questo è il contenuto del conflitto di attribuzione e non la ragione di Stato.
Gianluigi Pellegrino, in un articolo da noi pubblicato ieri, ha sostenuto che la legislazione attuale, all’articolo 271 del Codice di procedura penale, connesso con l’articolo 90 della Costituzione, contiene già la norma che stabilisce la distruzione immediata delle intercettazione vietate per legge e per Costituzione. In realtà invocare la ragione di Stato è una via di fuga.
C’è stato in questo caso un’infrazione estremamente grave da parte di una Procura della Repubblica per ignoranza delle norme. Escludo la malafede, ma l’ignoranza delle norme per chi maneggia professionalmente argomenti di estrema delicatezza non è cosa trascurabile.
Resta in piedi e mi addolora che alcune persone alle quali sono legato da profonda amicizia e stima abbiano sempre taciuto su questo aspetto della questione mentre sono larghi di incoraggiamenti a proseguire nell’accertamento della verità. L’incoraggiamento è anche il mio ma dopo venti anni dall’inizio di quell’inchiesta e dopo otto anni dal madornale errore di aver mandato all’ergastolo un innocente francamente dubito molto sulle capacità professionali di arrivare al desiderato accertamento della verità.

La Repubblica 29.07.12