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"Londra ci indica la ricetta per ripartire", di Mario Calabresi

Può una nazione in crisi permettersi ancora di sognare? Può, guardando al proprio passato e alle difficoltà che ha superato, provare a pensare di avere un futuro?
Può concedersi il lusso di prendersi in giro, di ironizzare sui suoi simboli, e nonostante questo sentire forte l’orgoglio di appartenere ad una comunità?
La serata che ha aperto le Olimpiadi ci ha risposto di sì: è possibile e il Paese che ci riesce ha trovato la strada per uscire dal buio. Perché la Gran Bretagna è una nazione in crisi, che vive la peggiore recessione da 50 anni, costretta a tagli drastici a causa di un mondo che sta cambiando drammaticamente scenari e certezze.

Ma nello spettacolo inaugurale il regista premio Oscar Danny Boyle ci ha ricordato che non è la prima volta che il mondo rivoluziona vite, professioni e sicurezze, che cambia completamente il panorama di fronte agli occhi, ha giocato con le nostre paure, gonfiandole per poi lasciarle volare in cielo, tranquillizzandoci con le favole che si leggono ai bambini. Quei bambini che saltano su un letto di ospedale siamo noi, impauriti, convalescenti, ma che dovremmo ritrovare il coraggio di fare una capriola, di vedere il mondo da un altro punto di vista.

Nel quartiere dove è nato lo stadio olimpico il 40 per cento dei giovani è disoccupato, la rabbia e il malcontento li abbiamo visti sfogati nelle strade. Potrebbe sembrare un affronto costruire un gigantesco evento sportivo da quasi dieci miliardi di euro proprio lì, proprio di questi tempi, ma uscendo dalla metropolitana di fronte al Parco olimpico ci si rende conto di cosa significhi investire, scommettere, costruire opportunità. Un quartiere in stato di abbandono è stato completamente rivitalizzato e cinque aree tra le più depresse di Londra hanno cambiato faccia, sono state rifatte infrastrutture, stazioni, strade e canali.
Ma ci sono almeno tre cose, che vanno ben al di là delle ricette economiche o degli investimenti, che mi porto a casa da Londra, che dovremmo tenere a mente se vogliamo provare a rialzarci.

La prima è l’orgoglio per la propria storia, alta o bassa che sia, si possono mescolare Shakespeare e Harry Potter, i Pink Floyd e Mr. Bean, la rivoluzione industriale e Mary Poppins senza avere paura di perdersi. Se si ha un’identità forte allora si può tenere tutto insieme, la cultura alta e quella pop, senza bisogno di mostrarsi tronfi, seriosi, retorici o pesanti. Che bella lezione di leggerezza, come la intendeva Italo Calvino, quella capacità di essere liberi senza scadere nella superficialità.

La seconda è l’ironia o, ancora meglio, l’autoironia, vero antidoto al cinismo che si mangia ogni passione, ogni possibilità di riscatto. Se poi a prestarsi al gioco è una vecchia regina, che ha appena festeggiato i suoi sessant’anni sul trono, allora l’effetto è contagioso. Noi italiani sembriamo non conoscere questo registro, o siamo comici o tragici, per sdrammatizzare le cose pensiamo che sia possibile solo rivolgersi al grottesco o nel peggiore dei casi fare i buffoni. Si può invece scherzare anche sui propri simboli senza per questo scadere nel dileggio e nell’insulto.

La terza è la capacità di sentirsi parte della stessa storia, sapersi emozionare nel ricordare le sfide vinte, le sofferenze e le prove superate. Si può votare a destra o a sinistra, essere nobili o proletari ma riuscire alla fine a giocare nella stessa squadra, per gli stessi colori, perché, come diceva un uomo che non era inglese ma americano e si chiamava Abramo Lincoln, una casa divisa non potrà mai stare in piedi.

La Stampa 29.07.12