attualità, politica italiana

"Il bilancio di Don Raffaele", di Sebastiano Messina

È la battaglia per diventare l’uomo di cui nessuno potrà fare a meno se vorrà governare l’isola o conquistare la maggioranza dei seggi per il Parlamento nazionale. Fino a ieri, con meticolosa e instancabile tenacia, il governatore ha piazzato le sue pedine su tutte le caselle libere del potere regionale, dalle autostrade agli ospedali, dall’Istituto Vini e oli all’Irfis, più di 130 nomine in due mesi con una media di due investiture al giorno, collocando ovunque i fedelissimi dell’Mpa e lasciando qualche avanzo agli ultimi alleati che gli sono rimasti accanto, i luogotenenti siciliani di Gianfranco Fini. Ma da oggi questi personaggi che sono stati miracolati in zona Cesarini, queste pedine che sono state messe in campo quando il potere di Arraffaele sembrava al tramonto, dovranno restituire con gli interessi alla politica ciò che la politica ha dato loro: a uno a uno saranno chiamati a trasformare in voti il potere che hanno avuto, e Lombardo deciderà il loro destino politico dal numero di preferenze che ciascuno di loro porterà all’Mpa.
Lombardo aspettava questo momento, il momento di tirare le reti, dal giorno in cui ha varcato il portone di Palazzo d’Orleans. Era entrato nelle stanze del potere siciliano – stanze che conosceva già alla perfezione, essendo stato il più fedele alleato di Totò Cuffaro, fino al giorno in cui decise di tenere per sé tutta la torta – annunciando grandi novità per questa terra.
Prometteva il Ponte, una riforma radicale della vecchia burocrazia, una cura di austerità e di efficienza per la Regione, la fine degli sperperi nel business malato della formazione professionale, una terapia radicale per la sanità, il sostegno alle imprese siciliane sane e lavoro, finalmente un lavoro senza dover emigrare, per i giovani più bravi. Sono passati più di quattro anni e non si è visto nulla di tutto questo. Il Ponte non si è fatto e forse non si farà mai. La riforma della burocrazia regionale è consistita finora in un una sola novità: tutti gli atti importanti devono passare dalla scrivania del governatore, che li firma se e quando vuole ui. Invece di velocizzare, ha accentrato, paralizzando tutto. La formazione professionale è ancora lì, con qualche lifting piemontese, tenuta in piedi con i miliardi che l’Europa si è già stancata di gettare in quel pozzo senza fondo, per la gioia dei non pochi deputati regionali dalla faccia di bronzo che hanno i loro soldi, le loro mogli o i loro figli in qualche ente dove «formatori » senza un mestiere fingono di insegnare qualcosa a dei «formandi » che fingono di impararla. Gli sperperi sono continuati, la Regione non ha fatto nessuna cura dimagrante, anzi: a furia di «sanare» le posizioni di migliaia di precari, lo stipendificio della Regione è diventato ancora più affollato, e viene da ridere assistendo alla sceneggiata dell’assessore Armao che, avendo promesso al governo Monti il taglio degli organici, ora deve far finta di farlo per davvero, sapendo lui per primo che nessun taglio sarà mai fatto in Sicilia finché al potere ci sarà Lombardo.
Invece dello sviluppo abbiamo avuto una crisi feroce, che ha tagliato migliaia di posti di lavoro, e tutto ciò che ha saputo fare il governatore, validamente assistito da Armao che è diventato il suo braccio finanziario, è stato mettere insieme delle improbabili cordate per l’acquisto della Siremar e sponsorizzare candidature imbarazzanti per Termini Imerese.
Quanto alla sanità, i conti sono certamente migliori di quattro anni fa, e alcune cose – pochissime, purtroppo per tutti noi – sono cambiate negli ospedali siciliani. Quello che non è affatto cambiato è il metodo: le aziende sanitarie sono rimaste delle succursali della politica, dove i direttori ma anche i primari e i capisala vengono scelti per meriti ben diversi dalla competenza e dai meriti professionali – non un solo manager senza la bandierina dell’Mpa o dei suoi alleati è mai stato scelto dall’assessore Massimo Russo, zelante esecutore della lottizzazione lombardiana – e i risultati sono quelli che ogni siciliano può constatare di persona quando gli capita la disavventura di varcare la soglia di un ospedale.
Con le sue dimissioni, Raffaele Lombardo chiude dunque un bilancio fallimentare, almeno dal punto di vista della Sicilia. Dal suo punto di vista, invece, il bilancio è nettamente in attivo: ha schierato una gran quantità di portaordini nelle caselle del potere siciliano, e alla fine di ottobre conterà i voti. Resta solo da vedere, da qui ad allora, chi deciderà di affiancarlo in questa spregiudicata operazione, e chi troverà il coraggio e la forza di opporsi ad «Arraffaele» e alla sua armata di clientes.
Un’ultima considerazione la meritano le parole di Lombardo in aula. Il governatore ha teorizzato un oscuro calcolo politico, quello di sganciare il voto siciliano dai partiti nazionali, motivazione che gli consente di non dire che si dimette per evitare di trovarsi, come il suo predecessore Cuffaro, nell’imbarazzante condizione di presidente e imputato per mafia.
Eppure non è riuscito a separare la vicenda politica da quella giudiziaria, dichiarandosi vittima di una «aggressione mediatica criminale ». Quelle parole erano rivolte a Repubblica, colpevole di aver dato per prima la notizia dell’inchiesta per mafia che lo riguardava, e di aver dato puntualmente conto ai suoi lettori degli episodi che i magistrati della Procura di Catania gli hanno contestato. Noi lo abbiamo invitato – venendo tardivamente ascoltati – a rispondere puntualmente e pubblicamente alle pesanti accuse che gli venivano rivolte. Forse il governatore avrebbe preferito che questo giornale, così come ha fatto qualcun altro, sostenesse che si trattava di accuse inconsistenti e infondate, ma il compito della libera stampa è quello di dare le notizie, anche e soprattutto le notizie scomode per i potenti.
Vedremo come si concluderà il processo. Oggi possiamo solo dire che di criminale, in questo momento, ci sono solo le storie dei personaggi che Raffaele Lombardo incontrava per ottenere l’unica cosa alla quale lui dà valore: i voti.

La Repubblica 01.08.12