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"A Berlino molti pregiudizi e qualche verità", di Stefano Lepri

Come facciamo a convincere i tedeschi che non vogliamo i loro soldi? Mario Monti ce l’ha messa tutta questa volta, nell’intervista apparsa ieri. Forte della sua competenza, di nuovo ha tentato di spiegare che l’aiuto a Grecia, Irlanda, Portogallo l’abbiamo pagato noi più che loro, e che ai tassi attuali sul debito pubblico sono gli italiani e gli spagnoli a sovvenzionare i tedeschi, non il contrario. Farsi capire non è facile. In Germania oggi le difficoltà dell’unione monetaria non stanno soltanto producendo un disincanto di massa verso l’integrazione europea, speculare a quello che vediamo anche da noi. C’è anche un fenomeno culturale che coinvolge una parte della classe dirigente tedesca, incline a ritenere di aver ragione contro tutto il resto del mondo o quasi.

La scoperta che dal prolungarsi della crisi la Germania guadagna l’ha già strillata come scoop al suo pubblico assai popolare il quotidiano Bild la settimana scorsa. Sessanta miliardi di euro negli ultimi trenta mesi era il calcolo; diversi esperti lo ritengono abbastanza verosimile. Eppure, poco si è smosso. I populisti si gloriano di questa ulteriore prova successo della patria; i più fanno finta di non vedere.

Che cosa sta accadendo sui mercati lo hanno spiegato benissimo al New York Times di venerdì scorso alcuni operatori finanziari. Sanno che i titoli di Stato italiani, agli attuali alti rendimenti, sarebbero un ottimo affare; ma continuano a venderli invece di comprarli per paura che tra i loro colleghi prevalga uno «tsunami di pessimismo collettivo» capace di spingere l’Italia al dissesto.

Questa è la realtà che molti economisti tedeschi negano; la loro teoria non la contempla, dunque non esiste (in chi al liceo ha penato sui Promessi Sposi affiora un ricordo…). Sostengono che rendimenti al 6-7% per il debito di Italia e Spagna sono razionali, anzi ben gli sta. Ciò che ora brucia è che la Bce abbia riconosciuto quella realtà, contrario il solo rappresentante della Bundesbank. Sta qui l’importanza delle decisioni di giovedì scorso, come ha sottolineato il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco.

Il nuovo nazionalismo tedesco perlopiù risponde parlando d’altro, in un corto circuito pericoloso tra demagogia elettorale e dogmi di un mondo accademico conformista. Si accusano i Paesi del Sud e la Francia di voler condurre la Bce a stampare moneta per finanziare gli sprechi dei politici, come avveniva nel loro passato. Quale passato, per noi? In Italia l’irresponsabile pratica era stata interrotta già nel 1981, grazie a Carlo Azeglio Ciampi e a Nino Andreatta; dieci anni prima del Trattato di Maastricht.

Nello stesso tempo dobbiamo riconoscere che diversi eventi italiani hanno contribuito ad alimentare la sfiducia tedesca. Negli Anni 90 i due Paesi soffrivano di mali simili; durante il decennio successivo a Berlino si sono succeduti governi capaci di curarli, a Roma no. Il troppo spiccio invocare gli eurobond da parte dei nostri politici tradisce il desiderio che i tedeschi paghino una parte del conto per noi.

È buono, seppur sia anche bizzarro, che il compromesso uscito dal consiglio della Bce preveda una condizionalità politica agli interventi per domare i mercati (proprio perché si tratta di raddrizzarli, non si creerà moneta in eccesso). Esploriamo un territorio nuovo, dove in ogni momento occorre verificare che cosa va deciso con il voto dei cittadini e che cosa è compito dei tecnici. In entrambi i Paesi, si deve guardare più allo spirito che alla lettera delle Costituzioni che ci hanno dato la democrazia alla fine degli Anni 40; e i Trattati europei, se serve, si modificano.

La Stampa 06.08.12