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"Nagel: io contro Ligresti", di Massimo Giannini

Una delle massime più famose di Enrico Cuccia vuole che «il peccato veniale di un banchiere è fuggire con la cassa, mentre quello mortale è parlare». Ebbene, stavolta Alberto Nagel, nato e cresciuto nel Tempio della Finanza di cui Cuccia è stato il Gran Sacerdote, commette il peccato mortale. L’amministratore delegato di Mediobanca parla, perché l’atto d’accusa della Consob e le inchieste della magistratura sullo scandalo Ligresti-Fonsai lo chiamano in
causa pesantemente.
E Nagel non vuole passare per quello che ha tramato in gran segreto per tenere in vita a suon di milioni un “dead man walking” come Don Salvatore. Non vuole fare la parte di quello che tenta di salvare a tutti i costi il capitalismo di relazione, nasconde la polvere sotto il tappeto del Salotto Buono e scarica il conto della “bonifica” sul Parco Buoi di Piazza Affari.
«Lei ha ragione — mi dice dal suo fortino assediato di Piazzetta Cuccia — dalla scomparsa di Vincenzo Maranghi in poi, in Italia si è combattuta e si sta combattendo una guerra di potere. Ed è anche vero che questa guerra ha camminato di pari passo con le evoluzioni della politica…». Nagel allude chiaramente all’ascesa di Berlusconi e al tentativo di presa del potere delle sue truppe cammellate. «Tra il 2009 e il 2010 c’è stato un tentativo chiaro, da parte di un gruppo di azionisti e di manager, per acquisire una posizione di forza all’interno del circuito che fa capo a Mediobanca… ». Con il sostegno esplicito del Cavaliere, in quel momento capo di un governo che aveva stravinto le elezioni, Geronzi e Bollorè «hanno cercato di entrare da padroni» nella Galassia attraverso la testa di ponte della famiglia Ligresti. In quel momento anche con l’accordo di Profumo, che allora guidava Unicredit, e — aggiunge Nagel — «nel silenzio delle autorità di vigilanza, a quell’epoca assai compiacenti».
Su questa ricostruzione, che rappresenta il primo tempo della partita dei Poteri Forti, Nagel non ha nulla da obiettare. La conferma, e la considera l’ultimo “colpo di coda” di un sistema che non reggeva e non regge più. Quello che contesta è che, nel secondo tempo della partita che inizia nel 2011 e arriva fino ad oggi, la “sua” Mediobanca abbia cercato di riacquisire la sua centralità, con i vecchi metodi dell’Ancien Regime del capitalismo italiano: patti di sindacato, accordi segreti, conflitti di interesse, partecipazioni incrociate e assetti immutabili. «E’ successo l’esatto contrario », obietta l’ad di Mediobanca che spiega: «Il punto di svolta è il momento in cui siamo riusciti a mettere fuori gioco Geronzi. Quello è stato l’inizio di un cambiamento epocale, per Mediobanca e per la finanza italiana. Per la prima volta, noi manager, Renato Pagliaro ed io, abbiamo ristabilito il primato dell’autonomia e dell’indipendenza. Siamo noi che abbiamo fatto saltare gli equilibri di quello che voi, sui giornali, chiamavate e chiamate ancora il Salotto Buono dei Poteri Forti, o dei Poteri Marci…».
Faccio osservare a Nagel che di questo nessuno, e meno che mai il mercato, ha avuto la benché minima percezione. Lui replica: «Stiamo ai fatti. Siamo noi che abbiamo mandato via Geronzi. Siamo noi che abbiamo fatto tre passi indietro in Rcs. Siamo noi, unici nel panorama italiano, che abbiamo riformato radicalmente la governance dell’Istituto, introducendo il limite dei 65 anni per i manager. Siamo noi che, da allora, abbiamo cercato di traghettare Mediobanca nell’era moderna, facendola diventare una banca d’affari che ragiona in un’ottica di puro mercato ». Ma su Ligresti le logiche che hanno prevalso sembrano le solite: salvare il credito di Piazzetta Cuccia, quasi 1 miliardo, e buona notte a tutto il resto. Nagel ribatte: «Ma noi Ligresti lo abbiamo messo alla porta, con tanto di lettere ufficiali! E abbiamo cominciato a farlo già in quell’autunno del 2010, quando abbiamo capito che trattava con Bollorè e con i francesi. Veniva da noi, ci chiedeva la “sala 7” e ci diceva: devo incontrare alcuni operatori finanziari. Senza dirci nemmeno di cosa stava trattando ». Da quel momento, secondo la ricostruzione del manager, si consuma la rottura con il finanziere di Paternò e dai suoi famigli.
Anzi, secondo Nagel il distacco era iniziato già prima. «I giornali — dice — dovrebbero smettere di scrivere che abbiamo continuato a finanziare i Ligresti fino a pochi mesi fa. In verità i rubinetti si sono chiusi dal 2007…». Sta di fatto che oggi, con l’ingaggio di Unipol nell’operazione di acquisto/fusione di cui Mediobanca è regista, i problemi non sono ancora risolti. E qui l’ad insorge: «Sa che le dico? In qualunque altro Paese europeo, di fronte alla situazione dei Ligresti e al progetto industriale di Unipol, il governo avrebbe convocato Carlo Cimbri e gli avrebbe detto: di cosa avete bisogno? Siamo pronti ad aiutarvi, perché il vostro è un piano che tutela gli interessi del Paese. Vede, io non sono innamorato dei “campioni nazionali”, ma nessuno può dire che il progetto Unipol su Fonsai non ha una grande valenza strategica e industriale». Ma di aspetti critici, sul punto, ce ne sono diversi: dall’assenza di Opa al danno per i piccoli azionisti, dalla ricapitalizzazione diluitiva di Premafin alla “buonuscita” d’oro promessa a Don Salvatore.
Nagel ribatte colpo su colpo: «Danni ai piccoli azionisti? Ma di che parliamo? Faremo gli aumenti di capitale, e l’inoptato lo ce lo prenderemo in carico noi e Unicredit, com’è giusto che sia. Poi è chiaro che io devo preoccuparmi di difendere il mio credito, ma sa perché? Perché anche Mediobanca ha i suoi piccoli azionisti da tutelare! E poi che senso ha parlare di aumento di capitale “diluitivo”? Tutte le ricapitalizzazioni lo sono, per definizione». Il bonus da 45 milioni per Ligresti merita un discorso a parte: è l’oggetto dell’inchiesta della Procura di Milano, che vede Nagel indagato per “ostacolo alle attività di Vigilanza”. C’è il famoso documento di due cartelle, in cui Ligresti chiede ampie garanzie economiche per sé e per i suoi rampolli. Nagel lo sottoscrive: oggettivamente, è una prova a suo carico. «Niente affatto — risponde lui — e l’ho spiegato ai pubblici ministeri. Ho messo una sigla sui “desiderata” della famiglia, tutto qua. Altro che patto parasociale! Nessuna delle cose scritte su quei due fogli di carta si è verificata. I 45 milioni di cui si parla non sono affatto una “buonuscita”, ma il corrispettivo della quota Premafin che Ligresti doveva cedere a Unipol…».
Eppure, l’impressione che con i Ligresti i rapporti non siano mai stati interrotti rimane. «E’ una falsità, anche questa. E’ chiaro che in una vicenda del genere siamo costretti a parlare anche con i Ligresti. Ma il criterio è: ti chiedono 20 incontri, tu rispondi 19 no ma alla fine devi dire un sì, se vuoi risolvere questa crisi». Dunque, a sentire Nagel, nessuna “intelligenza col nemico”. Solo il normale lavoro di mediazione di una grande banca d’affari. Ma è un fatto che la guerra di potere è tuttora in corso. E l’indebolimento di Mediobanca è oggettivo, com’è oggettivo il fatto che sia partita una strana “caccia” nei confronti del suo amministratore delegato. Perché? E’ davvero una vendetta postuma, dopo la cacciata di Perissinotto dalle Generali, “reo” di aver sostenuto su Fonsai la cordata alternativa a Unipol, quella guidata da Arpe e Meneguzzo? «Senta, quella di Arpe e Meneguzzo è una pura azione di disturbo. E quanto a Perissinotto, la verità è semplice: è stato messo a riposo dopo tanti anni perché in cda si è convenuto che i risultati della sua gestione non fossero performanti com’è giusto attendersi da un gruppo con il potenziale delle Generali. E questa valutazione è stata condivisa da tutti: anche da Pellicioli, Caltagirone e perfino Bollorè ».
Si può obiettare all’ad di Piazzetta Cuccia che, se il criterio per cacciare un manager è questo, allora anche lui è ad altissimo rischio, visto che Mediobanca in un anno ha perso il 60% del suo valore. «Io sono sereno — riflette — e ho fiducia nei magistrati, che sono persone serie. Non so se rischio qualcosa, all’assemblea dei soci di ottobre. Per ora non mi pare che da parte degli azionisti ci sia il desiderio di consumare chissà quali vendette. So solo che ho agito con assoluta correttezza, e che in questa vicenda su Fonsai i veri innovatori siamo noi, e i restauratori sono altri. Noi vogliamo voltare pagina, accompagnando fuori dalla scena i Ligresti… ». Dunque, lascia intendere Nagel, se oggi è in corso un secondo tempo della partita del potere questa vedrebbe gli “alani” della “nuova Mediobanca” nel ruolo dei modernizzatori, aperti al mercato, alla contendibilità delle aziende e alla creazione di valore. E i loro “nemici”, nascosti ancora nell’orbita geronziana niente affatto in disarmo, nel ruolo dei garanti del vecchio sistema e dei vecchi metodi.
E’ una versione credibile, quella di Nagel? La risposta verrà dai fatti delle prossime settimane. Dalle cronache finanziarie, che diranno se l’affare Unipol va in porto e se i Ligresti escono davvero per sempre dalla scena. E dalle cronache giudiziarie, che diranno se il quarantasettenne erede di Cuccia dice la verità, o è anche lui parte di un capitalismo in declino, che resiste e fa di tutto per non perdere quella modesta fetta di torta che c’è ancora da spartire.

La Repubblica 07.08.12