attualità, memoria

"La verità su De Mauro 40 anni dopo", di Miguel Gotor

Il giornalista Mauro De Mauro fu rapito il 16 settembre 1970, «inghiottito da una notte che non avrebbe avuto fine», come scrisse Vittorio Nisticò, il direttore dell’«Ora» di Palermo, il quotidiano di cui egli era uno degli inviati di punta.
Dopo oltre quarant’anni, la Corte d’Assise di Palermo ha stabilito che è stato ucciso perché si apprestava a divulgare quanto aveva scoperto circa la natura dolosa della morte del presidente dell’Eni Enrico Mattei, avvenuta a Bascapè nell’ottobre 1962, a seguito di un incidente aereo.
L’unico imputato, il boss Totò Riina, è stato assolto, ma la sentenza ha l’indubbio merito di avere ricostruito un movente credibile per spiegare la scomparsa del giornalista. Inoltre, ha individuato il mandante del suo omicidio nell’ex senatore democristiano Graziano Verzotto, che si sarebbe rivolto ai boss mafiosi Stefano Bontate e Giuseppe Di Cristina, con i quali aveva stretto rapporti ai tempi in cui era il responsabile delle relazioni esterne in Sicilia dell’Eni e poi presidente dell’Ente minerario; quel Verzotto che fu l’ultimo a volare sull’aereo che precipitò con Mattei a bordo, con ogni probabilità a causa dell’esplosione di una bomba.
Il presidente dell’Eni dava fastidio perché con la sua abile e spregiudicata difesa degli interessi nazionali aveva leso quelli petroliferi delle cosiddette «Sette sorelle» e, in particolare, sfidato le ambizioni imperiali inglesi stipulando accordi concorrenziali con i Paesi produttori di greggio a vantaggio dell’Italia. In più, Mattei era favorevole a sostenere la formazione di un governo neutralista che avrebbe abbandonato il posizionamento
atlantico dell’Italia e modificato gli equilibri della guerra fredda
stabiliti a Yalta.
Non stupisce che i dispacci diplomatici inglesi recentemente desecretati definissero Mattei «un uomo pericoloso » e che le compagnie petrolifere britanniche lo considerassero «una sorta di verruca o di escrescenza da ignorare (o che, per il momento, non può essere asportata)». E sì, perché in quegli anni ruggenti l’Italia, nonostante avesse perso la guerra, era riuscita a diventare una protagonista della politica mediterranea
scalzando dal loro ruolo privilegiato Francia e Inghilterra. La morte di Mattei, che De Mauro ammirava e seguiva come cronista, va inserita all’interno di questo contesto geopolitico, con le sue feroci rivalità e conflitti silenziosi, che in seguito avrebbero favorito la destabilizzazione italiana degli anni Settanta, con la strategia della tensione e il terrorismo rosso.
La sentenza della Corte di Assise chiarisce anche il ruolo di mandante avuto dal senatore Verzotto, che incontrò De Mauro pochi giorni prima della sua scomparsa, mentre stava
raccogliendo delle informazioni per conto del regista Francesco Rosi. Verzotto fu a lungo latitante a Parigi dopo che, nel 1975, venne coinvolto nello scandalo dei fondi neri della Banca Unione di Michele Sindona. Padovano, trapiantato a Siracusa, segretario provinciale della locale Dc dal 1955 al 1975, vicesegretario regionale del partito, è stato un uomo di grande potere per la sua capacità di unire politica e affari, in cui la dimensione legale e quella illegale si intrecciano in un vincolo inestricabile. Testimone di nozze del boss mafioso Di Cristina, in
rapporti con Lucki Luciano e Sindona, rappresenta, in qualche misura, una figura emblematica della classe dirigente siciliana di quegli anni, che gli inguaribili nostalgici della «Prima Repubblica» farebbero bene a non dimenticare. Egli testimonia i rapporti gelatinosi che esponenti politici locali e nazionali hanno stretto con la mafia, di cui si sono serviti per imporre svolte conservatrici al corso della storia nazionale. Una storia costretta a muoversi entro i rigidi schemi della guerra fredda e uno spregiudicato uso politico dell’anticomunismo al fine di stabilizzare in senso moderato il quadro interno.
La sentenza di Palermo, infine, mette in luce il funzionamento di un raffinato meccanismo sovversivo in cui «basso» e «alto», manovalanza esecutrice e mandanti rimasti nell’ombra, capacità di screditare la vittima e di depistare alimentando misteri, si sono sincronizzati alla perfezione. Una trappola mortale in cui la debolezza della politica ha lasciato lo spazio a poteri e a interessi affaristici più forti e che è scattata altre volte nella storia italiana: dal delitto Mattei agli omicidi di Pier Paolo Pasolini, Aldo Moro, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. La funzione di questo meccanismo fu subito compresa oltre che dai familiari del giornalista ucciso, anche da Leonardo Sciascia quando scrisse che «De Mauro ha detto la cosa giusta all’uomo sbagliato e la cosa sbagliata all’uomo giusto». Un ideale epitaffio, che andrebbe inciso lì, su un pilone dell’autostrada A19 o alla placida foce del fiume Oreto, ove si dice che il giornalista sia stato seppellito da mano feroce e ancora sconosciuta.

La repubblica 09.08.12