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"Quando l’imprenditore si sente classe operaia", di Ilvo Diamanti

Il volto sociale della crisi è descritto da molti indicatori. Per primo, il tasso di disoccupazione, che tende a crescere, rapidamente. Poi, il calo dei consumi. Che si riflette, fra l’altro, nel minor numero di persone partite per le ferie. Ancora: la repentina riduzione del risparmio privato. Punto di forza del nostro sistema bancario. L’aspetto, forse, più significativo della “crisi sociale” italiana, però, riguarda l’impresa. In particolare, di piccola dimensione. Visto che, in Italia, le piccole imprese hanno un’incidenza molto ampia. Sono, infatti, circa 60 ogni 1000 abitanti, mentre la media europea è intorno a 40 (Istat su dati della Commissione Europea 2009). Gli italiani. Un popolo di santi, poeti e navigatori. Ma anche di imprenditori. Soprattutto dopo il declino della grande impresa metropolitana del Nord-Ovest, sostenuta dallo Stato. Identificata dalla Fiat. Negli ultimi trent’anni, invece, lo sviluppo è stato trainato dalla piccola impresa, diffusa nel Nord-Est e nelle regioni dell’Italia Centrale ma anche del Centro-Sud adriatico. Un fenomeno socioeconomico che ha improntato l’identità nazionale. Dentro e fuori i confini. L’imprenditore, dagli anni Ottanta, ha smesso di essere il padrone. È diventato, a sua volta, lavoratore. Autonomo. Mito e modello di mobilità sociale, in un Paese dove molti lavoratori dipendenti ambivano a divenire anch’essi lavoratori in-dipendenti. Padroni — di se stessi. Un Paese dove l’impresa individuale e familiare ha continuato a moltiplicarsi. Un Paese di artigiani e commercianti, oltre che di industriali. Affollato da titolari di aziende meccaniche, tessili, edili, calzaturiere, chimiche e siderurgiche. Ma anche da informatici, tassisti, commercianti, commercialisti, ristoratori e parrucchiere. Tutti “imprenditori”. Un universo ampio, fluido. E frammentato.
Anche per questo, negli ultimi trent’anni, la cosiddetta “concertazione” ha avuto tanta importanza. Perché non solo le organizzazioni dei lavoratori dipendenti, ma anche quelle degli imprenditori e dei lavoratori autonomi, avevano, anzi, hanno, grande presenza e influenza sociale. Fra lavoratori dipendenti e indipendenti, autonomi e imprenditori, vi sono ampi margini di sovrapposizione. Confini mobili.
D’altronde, la Seconda Repubblica è sostanzialmente fondata sull’imprenditore, come mito e come realtà. La Lega: ha dato visibilità alle rivendicazioni delle aree di piccola impresa del Nord. Mentre Silvio Berlusconi ha incarnato il mito dell’imprenditore all’italiana. Che si è fatto da sé. Lo ha sceneggiato e rappresentato. In tutti gli ambiti e in tutti i linguaggi. Dai media allo sport. Dal costume all’a-morale pubblica.
Gli italiani, d’altra parte, concepiscono la propria differenza e specificità rispetto agli altri popoli anzitutto nell’arte di arrangiarsi (Indagine Demos per Intesa-Sanpaolo, marzo 2011). Che, come ho scritto altre volte, non si può ridurre a mera furbizia. Ma si traduce anche in arte, appunto. Capacità creativa. Che permette di adattarsi e di reagire, in fasi critiche come questa. Attraverso soluzioni impreviste e innovative.
Le sofferenza delle imprese italiane, in questa fase, vanno, dunque, valutate con attenzione. Perché potrebbero prefigurare un cambiamento di ciclo sociale, oltre che economico. Dagli esiti difficilmente prevedibili. I segnali, in tal senso, sono numerosi. Sotto il profilo delle statistiche economiche, è in atto, ormai da anni, un calo assoluto del numero di imprenditori: 25 mila in meno nel 2011 rispetto al 2010, ma 170 mila rispetto al 2004 (Fondazione R.Te. Imprese Italia su dati Istat). Nel 2012, peraltro, si è verificato un calo delle nuove imprese. In particolare, come segnalato su la Repubblica (fonte InfoCamere), appare sensibile il declino dei giovani imprenditori (ma anche delle imprenditrici).
Le associazioni di categoria, inoltre, denunciano le crescenti difficoltà della piccola distribuzione e, in particolare, degli alberghi e dei ristoranti, molti dei quali, nell’ultimo anno, hanno chiuso o stanno chiudendo.
La stessa enfasi dedicata dai media ai suicidi di piccoli imprenditori e di lavoratori autonomi, al di là della misura del fenomeno (non troppo diversa rispetto agli anni precedenti), denuncia la drammatizzazione del fenomeno nella percezione sociale.
È, peraltro, evidente il disagio dell’imprenditore sul piano “politico”. Lo rivela il declino dei soggetti che ne hanno assunto — e propagandato — l’immagine. La Lega e, soprattutto, Berlusconi: il Presidente imprenditore a capo del Partito-impresa.
Ma si riflette anche nella crescente difficoltà delle organizzazioni imprenditoriali, sul piano della rappresentanza. Per prima Confindustria. Indebolita, ovviamente, dalla crisi della base associativa. Ma anche dalla scelta di alcune imprese di non aderire. Di rappresentarsi da sole. Per prima la Fiat di Marchionne. Protagonista e interprete dell’impresa italiana fino a poco tempo fa.
Ma i problemi di rappresentanza di cui soffrono le organizzazioni di categoria — e in particolare Confindustria — si traducono, in modo esplicito, nel difficile rapporto con il governo.
— Ieri, con il governo Berlusconi, il Presidente Imprenditore: accusato di aver tradito la sua missione. La propria identità. — Negli ultimi mesi, con il governo tecnico. Come sottolinea, da ultimo, la polemica in merito alla spending review che ha opposto Giorgio Squinzi — nuovo presidente degli industriali — e Mario Monti. Il quale ha, peraltro, indicato — e denunciato — nella concertazione il principio della crisi del Paese. Dimenticando quanto quel sistema di relazioni abbia contribuito a cementare la società e le istituzioni nei primi anni Novanta, quando la Prima Repubblica affondava, insieme ai conti dello Stato.
Insomma, se le imprese italiane soffrono, soffre anche l’imprenditore, principale riferimento di questa società “cetomedizzata”, come la definisce Giuseppe De Rita (da ultimo ne L’Eclissi della borghesia, scritto insieme ad Antonio Galdo e pubblicato da Laterza). In questo Paese, dove la borghesia innovativa e riformatrice ha, storicamente, occupato uno spazio limitato. Inadeguato a promuovere la modernizzazione. Gli imprenditori: piccoli e piccolissimi. I lavoratori autonomi. Hanno, invece, ingrossato il Paese “medio”. Dove coloro che si sentono “ceto medio” (sondaggio Demos-Coop, aprile 2012), dal 2006 a oggi, si sono ridotti, anzi, sono crollati, dal 60% al 40%. In Italia, se anche gli imprenditori si sentono di ceto medio- basso e si dichiarano “classe operaia”: chi reagirà alla crisi? E soprattutto, chi spingerà la ripresa?

La Repubblica 13.08.12