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"Risanare senza spegnere", di Vittorio Emiliani

Se il destino del maggior centro siderurgico di un Paese che concorre al 18 % della produzione europea di acciaio può venire deciso dalla sentenza di un magistrato, davvero una politica industriale degna di questo nome non esiste più. Che il colosso di Taranto – insediato quasi dentro la città per favorire i proprietari di terreni – inquinasse in modo micidiale lo si sapeva da anni e anni. Ma poco o nulla hanno fatto – tutti quanti i soggetti in campo – per «mettere in sicurezza» gradualmente lo stabilimento tarantino.Una fabbrica che oggi dà lavoro e reddito (diretto o indiretto) a circa 18mila persone. Cessare ogni produzione nelle aree «a caldo», come impone la sentenza del Gip Patrizia Todisco, vuol dire erigere un monumento alla politica ambientale. Ma al tempo stesso erigere un monumento funebre alla politica e all’occupazione industriale in quella siderurgia in cui Italia e altri Paesi sviluppati (non solo Cina o India) hanno peso e ruolo. Prima di scatenare, anche in piazza, una sorta di «guerra di religione» a sostegno di questo o quel magistrato bisogna chiarire alcuni passaggi. La sentenza del Tribunale della Libertà, che non bloccava la produzione e nominava «custode» l’amministratore delegato dell’Ilva Ferrante, metteva quest’ultimo davanti a precise responsabilità: se durante i lavori di bonifica, si fossero registrati altri dati negativi, ne avrebbe risposto direttamente. Le motivazioni della sentenza non sono state ancora depositate e il Gip ne dà una interpretazione seccamente restrittiva senza conoscerle. Che procedura è mai questa? Quali ragioni la muovono? Il fatto che l’amministratore delegato dell’Ilva abbia impugnato il provvedimento? Peraltro la sentenza di Todisco è inappellabile presso il Tribunale della Libertà essendo venute meno le misure cautelari. Ci si può rivolgere soltanto alla Cassazione. Mentre alla Corte costituzionale il governo ricorrerà per verificare se non sia stato leso il suo potere «di fare politica industriale». L’ombra di Bisanzio si allunga.
E qui torniamo al discorso iniziale: possibile che si debba giungere ad una simile tragedia sociale per riparlare in Italia di politica industriale e della compatibilità delle fabbriche inquinanti con la vita delle città? Bisogna disperatamente, lucidamente tentare di mettere in campo forze, risorse, tecnologie per un piano rigoroso di misure risanatrici che ridiano vivibilità a Taranto e preservino i livelli di occupazione.
Chi sosterrà i costi di questo colossale quanto indispensabile risanamento? Lo Stato, l’Ilva o entrambi? Nel primo e nel terzo caso, perché mai la mano pubblica non dovrebbe controllare direttamente che quei fondi vengano ben spesi? In Italia abbiamo demonizzato l’intervento pubblico. In Francia, persino col centrodestra, non c’è stata questa demonizzazione «ideologica»: esecrare tutto ciò che è pubblico, santificare tutto ciò che è privato. La vicenda dell’Ilva dimostra che così non funziona. Il presidente di Federacciai ha affermato un anno fa che, nella siderurgia, rispetto al ’90, le emissioni inquinanti specifiche si sono ridotte «di oltre il 35%». È vero anche per Taranto? Certo non è il momento delle divisioni: fra i magistrati che si occupano della complessa vicenda, fra i sindacati, fra il governo e i lavoratori e i cittadini di Taranto. È il momento di un imponente sforzo comune: coniugare la salvezza della produzione e della occupazione industriale con quella di un ambiente inaccettabilmente inquinato. Che però non si disinquina in un giorno, né a colpi di sentenza irrimediabili.

l’Unità 14.08.12