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"Né studio né lavoro, la «costosa» esclusione dei giovani", di Sergio Rizzo

Si fa presto a dire «spread». Perché se fa male ogni volta che il differenziale fra i tassi di rendimento dei nostri Btp e dei bund tedeschi va in orbita, non va certamente meglio con altri confronti. Il più doloroso di tutti, quello che riguarda l’occupazione giovanile. In Germania gli under 30 che lavorano sono 8 milioni 135 mila; in Italia, appena 3 milioni 202 mila. Quasi cinque milioni di meno. Il tasso di occupazione, cioè il rapporto fra i giovani che lavorano e il totale delle persone in quella fascia d’età, è da noi risultato pari, nel primo trimestre dell’anno, al 33,2%, contro il 57,1% dei tedeschi. E’ un dato che forse meglio di qualunque altro spiega l’abisso che separa i nostri due Paesi. Il primo, la Germania, dove i giovani inattivi sono il 36,7%, e il secondo, l’Italia, nel quale sono addirittura il 57,6%: 21 punti in più.
Si potrà pensare che un tasso di inattività così elevato sia collegato a una maggiore propensione all’istruzione. Purtroppo però, spiega una recente e ancora inedita indagine della Confartigianato, non è affatto questo il motivo. E anche qui lo dicono chiaramente i numeri. Se infatti si prende in esame la fascia d’età compresa fra i 15 e i 24 anni, quella cioè tipica dell’istruzione secondaria e universitaria, la quota di giovani italiani impegnati nello studio è del 58%, contro il 67,2% della Germania. La conclusione è che in Italia ci sono 555 mila studenti in meno. Un particolare che fa rabbrividire, soprattutto pensando alla qualità dell’apprendimento. Basta dire che in Italia il tasso di abbandono della scuola o dell’università da parte dei giovani fra i 15 e i 24 anni è del 18,6%, a fronte dell’11,8% in Germania. Per non parlare delle competenze. I dati Ocse-Pisa dimostrano che uno studente italiano è mediamente meno preparato di un suo collega tedesco tanto in letteratura, quanto in matematica. Nelle scienze il gap si può calcolare in una misura pari al 7 per cento.
Minore propensione allo studio, maggiore inattività, minore occupazione, maggiore tasso di senza lavoro. I disoccupati con meno di trent’anni erano in Italia nel 2011, secondo lo studio della Confartigianato, 824 mila: 132 mila in più rispetto alla Germania, che ha però una popolazione del 36% superiore alla nostra. I giovani tedeschi senza lavoro erano dunque pari al 5% di tutti gli abitanti di quella età, contro l’8,7% degli italiani. Ed è una fotografia in costante peggioramento: nel primo trimestre del 2012 siamo già arrivati all’11,1%, mentre la Germania è scesa al 4,7%. Il tasso di disoccupazione rispetto ai giovani italiani attivi è salito quindi al 25,1%; i tedeschi sono al 7,6%. Ancora più preoccupante, però, è il raffronto fra gli «inattivi» che non soltanto non lavorano, ma nemmeno studiano. In Italia sono infatti un milione 425 mila, contro 809 mila in Germania. Esattamente il doppio, in rapporto alla popolazione della stessa fascia di età: il 15% contro il 7,5%. «Se il mercato del lavoro italiano registrasse un tasso di occupazione pari a quello tedesco avremmo 2 milioni 262 mila giovani under 30 occupati in più», conclude il rapporto Confartigianato.
La situazione assume connotati drammatici in alcune parti del Paese. Il record della disoccupazione giovanile spetta alla Provincia di Caltanissetta, con il 43,6%, seguita da Crotone, con il 41,5%, e da Napoli, al 39,8%. Ma fanno la loro parte anche Avellino, con il 38,2%, Agrigento, con il 37,3%, Palermo, con il 36,5% e Caserta, dove il tasso di disoccupazione dei giovani al di sotto dei 30 anni è al 35,2%. Ed ecco l’altra Italia: i giovani senza lavoro a Cuneo sono il 5,9%. Nella Provincia di Bolzano non superano il 7%. A Udine, l’8,8%. A Parma, il 9,1%. A Bergamo, il 9,6%. A Como, il 9,9%. Lodi è la prima Provincia dove la disoccupazione giovanile è a due cifre: 10 per cento. E arriviamo al paradosso. Perché nel secondo trimestre di quest’anno, in un Paese dove trovare un’occupazione (e ormai non soltanto stabile) sta diventando un problema sempre più serio, ci sono stati secondo la Confartigianato 31.960 posti di lavoro «di difficile reperimento». Numero non distantissimo da quello dei laureati nel 2007, che a oltre quattro anni dalla fine degli studi sono ancora faticosamente alla ricerca di una sistemazione. Costoro sono esattamente 44.662, ed esprimono un tasso di disoccupazione della cosiddetta manodopera intellettuale pari al 17,5 per cento. Cercano lavoro in 3.348 laureati in materie geo-biologiche, 6.795 laureati in materie letterarie, 3.298 psicologi, 5.182 esperti in materie giuridiche.
Andiamo avanti con il paradosso? Lo studio dell’organizzazione degli artigiani confronta il numero dei 1.192 meccanici per riparazione di automobili il cui reperimento sul mercato si è dimostrato difficile, con i 1.207 laureati con titolo triennale in scienze dell’educazione e della formazione ancora disoccupati. Ma anche quello dei 951 montatori di carpenteria metallica introvabili con gli 869 laureati in scienze della mediazione linguistica che sono a spasso. Oppure quello degli 887 cuochi che qualcuno cerca disperatamente con gli 878 laureati in lettere a ciclo unico costretti ancora a girarsi i pollici quattro anni dopo aver finito l’università. «Una delle condizioni per superare la crisi consiste nel ridurre la distanza fra i giovani e il mondo del lavoro. Dobbiamo a tutti i costi annullare lo spread che ci separa da Paesi come la Germania. Vogliamo avere nelle nostre aziende ragazzi motivati e formati»: parola del segretario generale della Confartigianato Cesare Fumagalli. Certo che la soluzione passi anche per un investimento sempre maggiore nell’apprendistato. Resta da capire cosa fare per tutti quegli universitari che senza volerlo hanno sbagliato strada.

Il Corriere della Sera 15.08.12