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"Nessun ateneo italiano tra i primi cento", di Valentina Santarpia

Sono le Università di Pisa e La Sapienza di Roma i migliori atenei italiani: a sostenerlo è l’Academic ranking of world universities (Arwu), una classifica elaborata dalla Jiao Tong University di Shanghai, tra le più accreditate a livello internazionale insieme a quelle elaborate annualmente da Times higher education e QS World university rankings. La decima edizione della ricerca di Shanghai, che assegna ad Harvard il primo premio, elenca le 500 migliori università nel mondo: tra queste compaiono 20 istituzioni accademiche italiane, contro le 22 dello scorso anno, ponendo l’Italia all’ottavo posto tra le nazioni, insieme alla Francia.
Tra le novità più importanti, la «scomparsa» dalla classifica delle Università di Siena e Pavia, e il cambiamento di posizione di due atenei: Palermo, che è andata peggiorando, spostandosi dal gruppo collocato tra il 301° posto e il 400° a quello tra il 401° e il 500°, e la Scuola Normale di Pisa, che invece ha migliorato le sue performance, passando dal gruppo 301-400 al gruppo 201-300. I due atenei di Roma e di Pisa (nel blocco 101-150) precedono invece come l’anno scorso Milano e Padova, tra il 151° e il 200° posto, e quelli di Bologna, Firenze, Torino, del Politecnico di Milano e della Scuola Normale, che si situano tutti tra il 201° e il 300° posto. Nella parte bassa della graduatoria, si piazzano Genova, Napoli (Federico II), Roma Tor Vergata, tutte tra il 301° e il 400° posto, per chiudere con il gruppo più corposo, quello degli atenei collocati tra il 401° e il 500° posto, dove troviamo la Cattolica, il Politecnico di Torino, l’università di Bari, Ferrara, Palermo, Parma, Perugia e la Bicocca di Milano.
Sono tutti punteggi che a prima vista non appaiono così lusinghieri. Ma «se si considera che l’Arwu valuta circa 5.000 università in tutto il mondo, che essere fra il 100° e il 150° posto significa essere nel 3% delle università migliori al mondo», come fa notare il prorettore della Sapienza Giancarlo Ruocco, «il risultato è di tutto rispetto». Allora perché gli atenei italiani ancora non riescono a entrare nel gruppo dorato delle prime cento, occupato per lo più da inglesi e americani? «Quello che ci manca è la capacità di organizzare il reperimento di fondi progettuali — spiega ancora Ruocco —. Soprattutto le università generaliste, non riescono a creare dei progetti validi che attirino risorse economiche e che ci permettano di crescere, anche a livello internazionale. E infatti uno dei compiti che ci siamo dati — conclude Ruocco — è quello di creare esperti del settore, professionalità specifiche in grado di mettere a punto i progetti di ricerca».
In effetti la classifica Arwu dà grande importanza alla qualità delle performance, sia accademiche che di ricerca, considerando elementi come il numero di riconoscimenti internazionali ottenuti dallo staff accademico, il numero delle pubblicazioni e delle citazioni, i risultati conseguiti in relazione alle dimensioni dell’istituzione. Rischia di non essere obiettiva, come ipotizza la ministra francese all’Istruzione Geneviève Fioraso, secondo cui l’Arwu «non tiene conto della qualità dell’insegnamento e ignora in gran parte le scienze umane e sociali»? «Tutte le classifiche sono parziali, indicative, perché fanno riferimento solo ad alcuni indicatori — risponde il presidente della Crui (Conferenza dei rettori delle università italiane) Enrico Decleva —. E comunque in Italia o si assume un atteggiamento più responsabile, e cioè ci si rende conto che bisogna investire in alta formazione, oppure le università nostrane non potranno mai essere ai primi posti della classifica».
Un esempio su tutti? «Il rapporto docente/studente sta precipitando nel nostro Paese — sottolinea Decleva —. E questo va corretto: l’internazionalizzazione ha bisogno di risorse, umane ed economiche». «Non a caso i primi sono sempre gli inglesi e gli americani — incalza il rettore del Politecnico di Milano, Giovanni Azzone —. In quei Paesi ci sono alcuni poli universitari che attraggono la maggior parte delle risorse e che così diventano eccellenza in settori specifici. In Italia questo non succede, è tutto molto frammentato». Come se ne esce? «Imitando il modello francese e tedesco — spiega Azzone —, dove si hanno molti centri di qualità ma si punta sull’eccellenza di alcuni». È la strada intrapresa dall’Università di Pisa, che non a caso nella classifica Arwu ha ottenuto un risultato lusinghiero anche per quanto riguarda i macrosettori: in Scienze naturali ha confermato la leadership, essendo l’unica italiana presente tra le prime 100 al mondo; in Matematica e Fisica ha ribadito l’eccellenza, posizionandosi per entrambe tra il 76° e il 100° posto al mondo; e in Chimica e Informatica è entrata tra il 101° e il 150° posto.
Ma numeri in classifica e graduatorie hanno davvero un senso per chi studia? «Assolutamente sì — conclude Azzone —. Sono passati da due a quattro milioni i ragazzi che ogni anno scelgono di frequentare l’università all’estero nei Paesi dell’area Ocse. Dobbiamo avere visibilità internazionale se vogliamo essere competitivi e attrarre cervelli. O non far fuggire i nostri».

Il Corriere della Sera 18.08.12