attualità, politica italiana

"Il tradimento dei liberali", di Francesco Cundari

Esclusi forse soltanto un paio di gruppuscoli nazi-maoisti o anarco-insurrezionalisti, nell’Italia degli ultimi vent’anni non c’è stato partito, rivista, associazione, leader politico o intellettuale che non abbia dichiarato la propria convinta appartenenza alla tradizione liberale. Tra tanti figli inattesi di quell’antica scuola di pensiero, tutti reclamanti la propria diretta discendenza da John Locke e Benedetto Croce, basta citare due nomi per dare un’idea immediatamente comprensibile di quale deformazione abbia subito il concetto nel corso di questi anni: Silvio Berlusconi e Antonio Di Pietro.
Solo se si parte da questo paradosso, alimentato per un ventennio dall’intero circuito del dibattito politico e culturale della Seconda Repubblica, si capisce la ragione dello scontro in atto sulle intercettazioni, che investe oggi persino la presidenza della Repubblica: unica istituzione democratica che in questi vent’anni di sovversivismo istituzionalizzato si era riusciti, seppure faticosamente, a mettere al riparo da quella lotta senza regole e senza principi in cui è precipitato il confronto politico. Il che è peraltro l’esatto contrario di qualunque possibile idea liberale di ordinamento civile, Stato di diritto, equilibrio e divisione dei poteri. Ma per cogliere il senso di questa inesorabile vendetta della storia bisogna prima misurare l’affronto che le è stato fatto.
Ridurre tutto allo scontro tra berlusconismo e dipietrismo sarebbe profondamente ingiusto. Né l’uno né l’altro avrebbero avuto il peso che hanno avuto se con il crollo della Prima Repubblica non fosse venuto meno ogni argine e ogni anticorpo, anzitutto tra gli intellettuali. Negli ultimi due decenni in Italia, e forse non solo in Italia, il vero «tradimento dei chierici» è stato infatti il tradimento dei liberali. Non per niente, i più insigni rappresentanti di quella tradizione, specialmente tra i commentatori, si trovano oggi in enorme imbarazzo.
E giustamente. Al momento del tracollo della Prima Repubblica, prima hanno favorito la brutale torsione in chiave presidenzialistica e personalistica della Costituzione, dei partiti, di ogni norma, principio o struttura intermedia che si frapponesse alla logica della «governabilità» e dello spoils system; travolgendo così ogni idea di mediazione, compromesso, dialettica e reciproco bilanciamento tra poteri. Poi, quando Silvio Berlusconi raccoglieva i frutti di questa semina, se non gli si accodavano, pretendevano di combatterlo con gli stessi metodi e in nome degli stessi principi, non volendo ammettere nemmeno a se stessi che il Cavaliere rappresentasse la più fedele incarnazione del sistema politico da essi teorizzato e legittimato.
Non c’è una sola delle aberrazioni giuridiche e civili ripetute oggi dai sostenitori delle varie teorie del complotto contro il Quirinale e contro la politica tout court di cui il Corriere della Sera non detenga il copyright, dalla campagna contro la «casta» all’uso di verbali di intercettazione penalmente irrilevanti al fine di screditare i propri avversari. La stessa invenzione del genere “articolo di giornale interamente costituito da verbali d’intercettazione” non si deve al Fatto quotidiano, ma al Corriere della sera; in questo, va detto, subito seguito da Repubblica, Stampa e via elencando. La sua data di nascita si può individuare facilmente nell’estate del 2005, quando bersagli della campagna erano il governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio, l’Unipol di Giovanni Consorte e tutti coloro che avevano avuto l’ardire di minacciare il fragilissimo equilibrio di potere del nostro capitalismo finanziario. Come le successive sentenze hanno dimostrato, in quella virulenta battaglia, nessuna deformazione della realtà, nessuna strumentalizzazione, nessuna forma di manipolazione è stata risparmiata al lettore. In nome della trasparenza e del diritto di cronaca si è affermato persino il diritto di riportare sui giornali gli sms personali della fidanzata di un finanziere impegnato nella scalata al Corriere della sera, per poi farle pure la morale sullo stile e l’ortografia. Simili strumenti sono stati usati e difesi, con ogni evidenza, anche contro Silvio Berlusconi, il quale da parte sua avrebbe ragione di lamentarsene, se non avesse fatto lo stesso con i suoi avversari interni ed esterni, come dimostra la vicenda proprio dell’illegale intercettazione di Piero Fassino al telefono con l’allora capo di Unipol (per non parlare del trattamento riservato a Dino Boffo prima e a Gianfranco Fini poi).
Dopo avere fatto un simile commercio di verbali, riempiendoci anche dieci o quindici pagine al giorno, come si può oggi scandalizzarsi dinanzi a chi vorrebbe far valere anche per il Capo dello Stato gli stessi principi fatti valere finora per manager, parlamentari e presidenti del Consiglio?
L’uso intimidatorio, ricattatorio o semplicemente denigratorio dei verbali d’intercettazione dovrebbe essere condannato sempre, che ci capiti di mezzo una ballerina o un capo di governo. Ma è una vergogna cui siamo purtroppo abituati, perché in questi anni, in Italia, è stato uno degli strumenti più utilizzati nella lotta per il potere. Una lotta che non ha avuto e non ha ancora oggi nulla, ma proprio nulla, di «trasparente».
Rispetto delle isituzioni, senso dello Stato e insieme senso del limite che la stessa autorità dello Stato non può mai valicare, dinanzi all’inviolabilità della persona, della sua sfera più intima, delle sue comunicazioni; rifiuto categorico e persino aristocratico per ogni forma di demagogia e populismo; severa concezione dei diritti e dei doveri di ogni cittadino senza concessioni alle mode o agli interessi contingenti. Non era questa l’essenza della cultura liberale, assai prima e assai più che la fede cieca nel mercato o l’idiosincrasia per i sindacati e ogni forma di intervento pubblico? E non dovrebbero ripartire da qui i tanti liberali di oggi, e prima di tutti coloro che dicono di ispirarsi a De Gasperi e alla tradizione cristiana?

l’Unità 21.08.12