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"La supplenza tecnocratica", di Massimo Giannini

Draghi ha vinto la battaglia di Francoforte. Il via libera della Bce allo scudo anti-spread è un passo avanti verso il salvataggio della moneta unica. Non era affatto scontato che il banchiere italiano riuscisse a convincere 16 governatori su 17, più i 5 membri del board, a votare sì al nuovo piano di acquisto di bond degli Stati più esposti sul differenziale tra i tassi d’interesse. La vittoria ha un alto costo economico: per i Paesi che busseranno all’Eurotower, il pasto non sarà gratis. Ma fa emergere soprattutto un altissimo deficit politico: per quanto importante, nessuna supplenza dei tecnocrati potrà colmare la «vacanza» dei
governanti di Eurolandia. Il compito del presidente era arduo. Uscire dal Consiglio direttivo con una decisione formale, e non con un impegno generico, era ai limiti del temerario. Le pressioni di chi chiedeva tempo erano fortissime: perché non aspettare la pronuncia della Corte di Karlsruhe sulla legittimità costituzionale dei fondi salva-Stati, prevista per il 12 settembre? Le tensioni tedesche dell’establishment e dell’opinione pubblica erano insostenibili: perché cedere ancora all’azzardo morale preteso dai Piigs, i “maiali” dell’eurozona? La contesa intorno al nuovo firewall della Banca centrale stava, e purtroppo sta tuttora, assumendo i contorni di uno “scontro di civiltà”.
La vulgata più retriva, disgraziatamente dominante in queste settimane di campagne elettorali incrociate, era la seguente. I tedeschi hanno accettato la moneta unica puntando alla germanizzazione del Club Med. Se ora passa lo scudo anti-spread, si ritroveranno a fare i conti con l’italianizzazione dell’Europa. “Lira-zation”, è il termine che non a caso orbita da giorni nel circuito politico-mediatico europeo. Come se le decisioni di Draghi prefigurassero un clamoroso sovvertimento degli equilibri dell’Unione. Portando la Bce a rinnegare la luterana “cultura della stabilità”, e ad introiettare la cattolica “cultura della liretta”. Sancendo una sorta di egemonia culturale dei “latinos” sui “teutoni”. Se si guarda alla storia del Novecento, dalla crisi di Weimar in poi, i tedeschi hanno qualche ragione di temere per se stessi. Se si guarda al passato più recente, hanno anche qualche ragione di diffidare degli altri.
Ma la deriva anti-europea di queste ultime settimane stava diventando francamente inquietante. Draghi è riuscito a spezzare questa cappa di conformismo populista, che con motivazioni uguali e contrarie si insinua nelle capitali del Continente. È riuscito a reggere alle pesanti interferenze tedesche, creando consenso intorno al suo Monetary Outright Transactions. È riuscito a conquistare il sostegno discreto della cancelliera Merkel, che in pubblico bastona per tranquillizzare i suoi elettori, ma in privato ragiona perché riconosce i vantaggi dell’euro. È riuscito a isolare, mettendolo in minoranza assoluta nel board, il falco della Bundesbank Weidmann, costretto ad un irrituale comunicato in cui conferma i suoi giudizi negativi sullo scudo e rinfocola i suoi pregiudizi corrivi nei confronti dei “mediterranei”.
La cura predisposta dalla Bce può fermare l’emorragia degli spread. Insieme alle risorse già assegnate al fondo salva-Stati Efsf, la “massa critica” degli interventi possibili, tra mercato primario e secondario, supera di gran lunga i 1.600 miliardi di euro. Gli acquisti “senza limiti fissati ex ante” di titoli di Stato sono una difesa potente, anche sul piano psicologico, che può disarmare la grande speculazione internazionale. La rinuncia alla “seniority” della Banca centrale, che cessa di considerarsi “creditore privilegiato”, può aiutare a rassicurare gli operatori. Ma quello che conta, e che Draghi sembra sperare, è soprattutto l’effetto deterrenza di questo ennesimo “muro di fuoco” che la Bce alza a difesa dell’euro. L’auspicio è che basti l’annuncio a piegare gli spread e a scongiurare la necessità che gli Stati più esposti siano costretti a chiedere l’aiuto dell’Eurotower e dell’Efsf. La reazione entusiasta dei mercati sembra alimentare la speranza. Ma la paura rimane. Per due ragioni essenziali.
La prima ragione è che Draghi, pur vincendo la battaglia, ha dovuto comunque concedere qualcosa alla Bundesbank. E quel “qualcosa” costa caro ai Paesi che avranno bisogno dell’intervento della Bce: le nuove «condizionalità» alle quali saranno sottoposti sono più «severe e stringenti» di quelle immaginate dai governi al Consiglio europeo del 28-29 giugno scorso. Agli Stati sussidiati saranno richieste «misure correttive» ulteriori e da concordare con la Troika. Questo vale per la Spagna di Rajoy, che potrebbe essere il primo ad andare a Francoforte con il cappello in mano. Ma può valere anche per l’Italia di Monti, che farà di tutto per evitarlo, ma che se lo facesse ipotecherebbe l’azione di qualunque governo successivo al suo dopo il voto della primavera del 2013. Un maleficio per chi vincerà le elezioni, che tuttavia potrebbe rivelarsi un beneficio per il Paese.
La seconda ragione è che Draghi, pur mettendo un’altra piccola ma solida pietra nel muro della costruzione europea, non può fare a lungo un mestiere che non gli compete. Era già accaduto con i primi Smp (gli acquisti di bond dell’estate scorsa), e poi con gli Ltro (le maxi-iniezioni di liquidità per le banche). Utili a tamponare, a “comprare tempo”, ma non certo risolutivi. Per quanti “attrezzi” la Bce possa mettere in campo, il cantiere di Eurolandia va avanti e si completa solo se la politica riempie come deve i vuoti che la tecnica non può colmare. L’agenda europea delle prossime settimane è densa di appuntamenti. I governi hanno il dovere di onorarli. Le tecnocrazie, per quanto esecrate, restano finora il solo driver funzionante dell’Unione. Non possono continuare a sostituire le democrazie.
La Repubblica 07.09.12