attualità, pari opportunità | diritti

"Quei bimbi in fuga dalla disperazione", di Domenico Quirico

So che cosa hanno provato, i naufraghi bambini di Lampedusa. E’ il momento in cui il motore si arresta e al gorgoglio dei pistoni rantolanti, della pompa che aspira l’acqua dalla stiva marcia si sostituisce l’immenso, fragoroso silenzio del mare. E poi: i frenetici tentativi, con un cacciavite con le mani con gli stracci con le preghiere, di far ripartire il motore esausto. Il pilota il cui volto si fa livido di paura, il fremito che comincia a circolare tra le file dei migranti, stipati sul ponte a file fitte e ordinate con il divieto di alzarsi di muoversi. E invece i primi che si alzano, e le grida delle donne (sul mio barcone non c’erano donne, era un altro tempo: come tutto è cambiato orribilmente, nel giro di un solo anno). Nessuno all’inizio ha capito: perché ci siamo fermati? Proprio ora, dove venti ore in mare, quando pensavamo di essere ormai vicino a Lampedusa?

Ma già l’acqua comincia a salire, lenta, inesorabile: la puoi vedere, tu stesso, attraverso la piccola apertura della stiva. E’ allora che anche i bambini hanno capito che «il viaggio», quel viaggio straordinario che sembrava svolgersi, il mare, bagnati dall’acqua e da pallide onde di sole giallo, come un’affascinante avventura si convertiva, malvagio, in tragedia e paura e morte. La tensione che penetra in tutti i pori della mente, quel tipo di tensione che si avverte negli incubi infantili quando da un momento all’altro, sbucando da un mobile o dietro una porta, può accadere qualcosa di vago e di ignoto.

Queste vecchie barche, come era la mia, muoiono lentamente, lasciano che il mare le abbracci e le soffochi. C’è tempo per pensare: allora è questa la sensazione che uno avverte al momento della morte: questo vuoto, questa sospensione tra essere e non essere? se è così, non c’è quasi da averne paura.

Bambini migranti, bambini aspiranti «clandestini», come diventeranno con parola orrenda nei verbali, nella burocrazia di questa tragedia senza fine. So che cosa hanno provato quando sono partiti. La barca che li aspetta su una spiaggia fuori mano della Tunisia, le raccomandazioni dei nonni, dei parenti che li hanno accompagnati al luogo di raccolta e li hanno consegnati al passeur, con i soldi per il passaggio: come se fossero cose, oggetti da spedire. Loro sono soli felici eccitati. Deve essere la felicità questa, ma non lo sanno ancora. Hanno raccontato loro, per invogliarli, di un altro mondo al di là del mare, dove ci sono parenti o amici che li accoglieranno, città dove, al calar del sole, la vita invece di finire sembra cominciare.

Nel Maghreb, in Africa, come tra tutti i poveri del mondo, l’età tramonta di colpo come il sole; prima sono bambini, un attimo dopo già vecchi. Come assomigliano ai ragazzi con cui sono salito, un anno fa, su un’altra barca della speranza, tutti popolo di questo Mediterraneo così gonfio di speranze e di divieti. Erano più grandi, allora, erano i giovani ribelli che avevano appena cacciato il tiranno e esercitavano il loro diritto di partire, di andare a scoprire altri mondi. In fondo il loro era un atto politico, quasi rivoluzionario. Ma questi bambini di quale nuova delusione, di quale nuova disperazione sono figli, naufraghi, vittime? Al confine tra gli Stati Uniti e il Messico raccontano che sempre più spesso a tentare di attraversare il deserto (in fondo un altro mare pieno di insidie e di vuoto) sono minorenni, soli. Tentano di raggiungere i genitori che sono già dall’altra parte, nel mondo dei ricchi: perché la miseria è tanta e i parenti non riescono più a mantenerli; perché pensano che la nostra soglia del rifiuto e dell’indifferenza si abbassi e sia più clemente con chi è piccolo, che riconosceremo in loro più facilmente la vittima a cui destinare la nostra misericordia, più che ai fratelli ai genitori ai nonni. L’indifferenza: la perfezione dell’egoismo.

Un anno fa il popolo di Lampedusa era fatto di ragazzi ardenti indomiti, in loro una insofferenza, un furore, un miscuglio, direi, di odio e di amore. Ma questi bambini cosa si portano dentro? Sono partiti per l’enorme pressione della povertà che scorre, si ramifica e si estende come l’acqua alluvionale nel mondo. Ecco la verità: nulla è cambiato dall’altra parte del mare, c’è lo stesso riconoscibile dolore di ogni giorno, la vita come sappiamo che lì viene vissuta, senza lavoro e senza speranza, che prosegue monotonamente il suo cammino. Il dopo primavera araba è una cosa molto ordinata e pulita, ma dalla distanza da cui noi la guardiamo: certo ora votano liberamente, i giornali sono liberi, si può perfino manifestare. E’ tanto, è molto. Ma i rivoluzionari vittoriosi sono poveri come un anno fa, forse ancor più perché hanno perso la speranza. E ora fanno partire i bambini.

La Stampa 08.09.12

******

I migranti bambini mandati verso l’ignoto Sono cinque i minori sbarcati ieri: centinaia dall’inizio dell’anno”, di RICCARDO ARENA

Partono spesso senza i familiari, piccoli uomini che sfidano il mare e la solitudine quando arriveranno a destinazione: sono stati 183 dall’inizio dell’anno, su 184 arrivati, i «minori non accompagnati» sbarcati a Lampedusa.

E anche ieri, fra i 56 naufraghi dell’isolotto di Lampione, c’erano 5 adolescenti, subito mandati in un’area destinata a loro e alle donne, all’interno del Cpsa, il centro di prima accoglienza e soccorso. Il viavai è continuo: poco prima dei nuovi arrivi c’erano state sedici partenze di ragazzi tra 14 e 15 anni. Erano 15 somali, 13 arrivati nei giorni scorsi, altri due sbarcati a Lampedusa mercoledì, più un tunisino. Sono stati mandati nei centri sparsi in Italia, in attesa di una destinazione definitiva.

Prime vittime dei mercanti di uomini, i ragazzi sono destinati a peregrinazioni e problemi, ma hanno la certezza di non poter essere rimpatriati. Tante volte – ed è successo anche nel naufragio di giovedì – si tratta pure di morti: il mare, l’altro ieri, stando al racconto dei superstiti, avrebbe inghiottito sei minorenni, tra cui un bimbo di 5 anni. Versioni ancora confuse, da verificare. Ma il dramma rimane tale. Lo sanno bene gli operatori di Save the Children, l’organizzazione umanitaria che lavora sul campo, a Lampedusa e non solo.

«Stiamo seguendo anche i nuovi arrivati – dice Michele Prosperi, uno dei dirigenti dell’associazione – per supportarli e incoraggiarli. Sono molto provati per quanto hanno affrontato. Dato che sono tunisini è probabile che vorranno raggiungere i loro familiari in altri Paesi, soprattutto in Francia». L’estate scorsa l’ex base Loran di Lampedusa, destinata ai minorenni privi di familiari, era stata trasformata in una sorta di centro di detenzione: fu chiusa dopo le proteste dei suoi ospiti e al suo posto oggi funziona il Cpsa, la cui ristrutturazione dev’essere però completata.

Aggiunge Valerio Neri, direttore generale di Save the Children Italia: «Deve essere immediatamente revocata la dichiarazione di “porto non sicuro” per Lampedusa, cosa che garantirebbe a tutti i migranti immediato soccorso e prima accoglienza». Solo dal 18 agosto scorso i nuovi arrivi sono stati 803, per la maggior parte eritrei, somali e tunisini, dei quali 65 donne e 95 minori, di cui 87 non accompagnati. I tunisini sono arrivati soprattutto dal 29 agosto in poi: tra i 118 migranti una donna e 7 ragazzi senza familiari. «Le famiglie – spiega Prosperi – per spedire i figli oltremare, pagano i trafficanti di uomini. Gli stessi ragazzi devono lavorare per questo. Noi cerchiamo di non farli sparire, li seguiamo, ad esempio a Roma, al centro “Civico Zero”, per farli inserire in un percorso d’integrazione, ma non è facile».

Assieme all’Unhcr, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, all’Oim e alla Croce rossa, Save the Children ha dato vita al progetto Praesidium. L’anno scorso fu individuato un caso emblematico: quello di Mohamed (nome fittizio), un somalo oggi 17enne, che aveva provato quattro volte, sempre da solo, dopo avere raggiunto la Libia, a imbarcarsi per la Sicilia. Le prime tre gli andò male e nell’ultimo caso fu uno dei 40 superstiti di un naufragio che fece oltre 500 vittime. Pochi giorni dopo ripartì e a maggio del 2011 sbarcò a Lampedusa. Oggi non si sa più dove si trovi.

La Stampa 08.09.12