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"Un rebus in tre punti per l'Euro", di Bill Emmott

Sarebbe bello prevedere che l’autunno porterà un po’ di sole alle nostre cupe economie europee, una luce alla fine del tunnel della crisi dell’euro. Purtroppo, però, sarebbe avventato presumerlo, anche dopo l’importante annuncio di Mario Draghi, giovedì, alla Banca centrale europea. Perché nessuno dei tre principali problemi che affliggono l’euro è stato ancora risolto. E’ vero che il quadro non pare molto più felice dall’altra parte della Manica, in Gran Bretagna o dall’altra parte dell’Atlantico negli Stati Uniti. La scorsa settimana il primo ministro britannico, David Cameron, ha annunciato un pacchetto di misure presumibilmente intese a rafforzare la crescita economica, ma il pacchetto, in definitiva, era vuoto: ha dimostrato che il suo governo non sa cosa fare. Allo stesso modo, il presidente Barack Obama nel suo discorso alla Convenzione del partito democratico non è riuscito a delineare un vero programma di quello che vorrebbe fare se a novembre sarà rieletto presidente.
Almeno il presidente della Bce, Draghi sa cosa fare: «Tutto il possibile», e, se necessario, comprerà titoli di Stato italiani o spagnoli in misura sufficiente a ridurre a livelli accettabili i costi di finanziamento di tali Paesi.

In altre parole, nella sua visione, occorre rimuovere il premio caricato dagli istituti di credito sui governi per coprire il rischio di un crollo dell’euro. L’euro non sta per crollare, dice, quindi non c’è bisogno di un premio.

Si tratta di un piano ingegnoso e rappresenta un notevole progresso che Draghi sia riuscito ad annunciarlo nonostante l’opposizione politica tedesca. Se dovesse funzionare, potrebbe addirittura riportare il sorriso sui volti del primo ministro Cameron e del presidente Obama, perché loro sanno che la recessione e il possibile crollo della zona euro deprimono le loro economie e rendono più guardinghe le loro aziende. Ma anche se il piano di Draghi è necessario e anche se può riuscire a far sì che non siano solo i mercati finanziari a determinare il futuro dell’euro, non basta a risolvere l’inghippo dell’eurozona.

Questo rebus ha tre punti. Il primo è pratico: come ristabilizzare la moneta europea, come vogliono i tedeschi, gli olandesi e gli altri Paesi creditori del Nord Europa, in base a rigorose norme di bilancio e a severe condizioni per eventuali salvataggi, finché c’è un Paese membro – la Grecia – che notoriamente non può obbedire alle regole e avrà inevitabilmente bisogno di altri aiuti? Espellere la Grecia metterà in pericolo la moneta e il sistema bancario europeo, ma tenerla come membro mina la credibilità di tutte le regole e le «condizioni» a cui la Germania e Draghi fanno riferimento. Su questo non è stato fatto alcun progresso e per la fine di settembre occorrerà decidere per un nuovo salvataggio della Grecia.

Il secondo è politico. Se, come dicono i creditori, la mutualizzazione del debito, un’unione bancaria e le misure di solidarietà del tipo appena annunciato da Draghi richiedono un passo verso l’unione politica e il trasferimento di sovranità alle istituzioni europee di tutti i tipi, come può accadere ciò in un frangente in cui l’andamento della politica nazionale in tutta l’Unione Europea si sta muovendo virtualmente nella direzione opposta? Il voto olandese del 12 settembre sarà un test per questo. Ma anche se la politica nazionale non si muove attivamente verso una posizione anti-euro, dappertutto, e particolarmente in Germania c’è resistenza a una maggiore centralizzazione.

Il terzo e ultimo enigma è di natura economica, ma alla fine è politico, ed è meglio illustrato dall’Italia stessa. La domanda è come la moneta, e con essa le società e le democrazie dell’Europa occidentale, possono essere salvate dalla sola austerità fiscale. L’Italia illustra quest’aspetto attraverso la combinazione dei tagli di bilancio del governo Monti, che erano necessari per rispettare gli impegni europei e rassicurare gli investitori internazionali, e una profonda recessione. E anche attraverso i frequenti riferimenti del presidente Monti alla «buona condotta» dell’Italia e al fatto che i suoi «fondamentali economici» non giustificano gli elevati costi di finanziamento. Queste affermazioni sono del tutto vere se si guarda solo alla politica fiscale. L’Italia è virtuosa, obbedisce alle regole dell’eurozona e presenta un deficit di bilancio di gran lunga inferiore rispetto alla Gran Bretagna. Ma non sono vere se si guardano la crescita economica e le sue prospettive. Senza la crescita economica, il debito sovrano dell’Italia crescerà a una percentuale ancora più elevata del Pil, e molto probabilmente il presidente Monti non raggiungerà del tutto i suoi obiettivi di bilancio. E, cosa più importante, senza la prospettiva di un ritorno alla crescita economica, la situazione politica potrebbe rivelarsi abbastanza brutta.

Gli italiani questo lo sanno, naturalmente. Ma come molti altri europei, sono anche riluttanti ad accettare il tipo di riforme di liberalizzazione che vorrebbero il presidente Monti e altri come lui. Il mondo europeo è troppo definito dall’austerità, dal sacrificio, dalle misure di salvataggio un po’ difficili da comprendere, come quelle della Banca centrale europea.
L’ingrediente mancante è quello che il presidente François Hollande ha messo in luce in primavera durante la sua campagna elettorale, ma che da allora è caduto nel dimenticatoio: un riequilibrio della politica europea verso la crescita, con l’allentamento fiscale al Nord e la liberalizzazione al Sud. Miracoli esclusi, finché questo non accade, e fino a quando gli altri due enigmi dell’eurozona non saranno adeguatamente affrontati, l’Europa è destinata a continuare a zoppicare, da una crisi all’altra.
Traduzione di Carla Reschia

La Stampa 09.09.12