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"Il paternalismo di Stato", di Luigi Manconi

L’ipotesi di una tassa sulle bibite gassate ha suscitato scandalo e ilarità. E, soprattutto, una discussione lievemente demenziale, e talvolta sgangherata, a proposito della «libertà dei moderni» nei confronti di quel Leviatano che è il potere dello Stato. La questione è dannatamente seria e rappresenta addirittura uno dei nodi cruciali per il buono ed equo funzionamento dei sistemi democratici. In altre parole: qual è il limite di intervento dello Stato, delle sue istituzioni, delle sue leggi e dei suoi apparati nella vita privata dei cittadini? Fin dove può giungere quell’intervento? Quanto può condizionare le scelte relative alla sfera più riservata e intima delle nostre esistenze personali? I dilemmi sono questi. E sono dilemmi enormi perché, in un sistema democratico può porsi, per lo Stato, l’esigenza di tutelare due diritti e due interessi, entrambi legittimi e meritevoli di protezione e, tuttavia, suscettibili di entrare in conflitto. Dunque, al di là degli argomenti spesso non così appropriati cui si è fatto ricorso, anche l’appassionante rissa intorno alla «tassa sul rutto» aveva una sua importanza. In gioco c’erano, appunto, il diritto dell’individuo a consumare bevande addizionate di gas, ed eventualmente ad abusarne, e il diritto dello Stato a scoraggiare quel consumo perché destinato a produrre conseguenze negative sulla salute individuale e collettiva: e di conseguenza a determinare costi eccessivi per il sistema sanitario.
Quest’ultima considerazione «economica» è senza dubbio importante: se si accertasse, infatti, che le libere scelte individuali hanno effetti così disastrosi da comportare spese enormi per la collettività è difficile affermare che i consumi che determinano questi effetti non debbano essere tassati in maniera onerosa. È quanto succede, peraltro, già adesso a proposito del tabacco e dei superalcolici: e chi, come me, è favorevole alla legalizzazione delle sostanze stupefacenti ipotizza comunque per esse un regime di tassazione capace di scoraggiarne o perlomeno disincentivarne l’abuso. C’è del «paternalismo di Stato» in questo? Probabilmente sì, ma quel tanto indispensabile a creare un tessuto di coesione e di sicurezza collettiva all’interno delle relazioni sociali. Non a caso, in tutte le società democratiche è prevista l’obbligatorietà – e non solo la possibilità per tutti – dell’istruzione fino a una determinata età. Ma qui preme evidenziare quanto questa materia sia controversa. Noto, intanto, che tra i più accesi nemici della tassa sulle bibite gassate si è distinto Maurizio Gasparri: ovvero colui che, più di altri, si è fatto sostenitore di una normativa di impianto autenticamente totalitario. Mi riferisco alla proposta di legge che prevede la possibilità di imporre il sondino per l’idratazione e la nutrizione artificiali per chi si trovi in stato di coma, anche se in precedenza ha dichiarato esplicitamente, e per iscritto, il rifiuto di quella pratica. Ma c’è un altro esempio assai istruttivo: quello relativo all’obbligo del casco per i motociclisti. Qui non si tratta solo di evitare danni e costi evitabili, ma interviene un’ulteriore considerazione: perché mai io, automobilista, devo essere «costretto» a correre il rischio di venire coinvolto, anche senza alcuna mia personale responsabilità, nella morte di un motociclista che ha scelto «liberamente» di guidare senza casco? Insomma, l’obbligo del casco può ridurre sensibilmente il numero delle circostanze che portano un automobilista a contribuire, anche senza alcuna propria colpa, alla morte di terzi. Con tutto ciò, si vuol dire che il discorso non è affrontabile con l’accetta dei pregiudizi ideologici. Sono fermamente convinto che lo Stato e le sue leggi non debbano impormi gli stili di vita più virtuosi né, tantomeno, decidere – quando non vi sia reato – ciò che è lecito e raccomandabile, e dunque praticabile, e ciò che è illecito e sconsigliabile, e dunque da evitare.
Ma penso che sia estremamente difficile definire anticipatamente e in maniera rigida un prontuario di regole valide una volta per sempre, che fissino i confini e i limiti invalicabili dell’intervento dello Stato nella vita privata dei cittadini. Alcune sentenze hanno mostrato, in maniera davvero inequivocabile, quanto sia scivolosa e di difficile definizione questa materia. Recenti decisioni del tribunale dei minori di Reggio Calabria hanno stabilito la limitazione della potestà genitoriale nei confronti dei figli minori per genitori appartenenti a organizzazioni criminali. Ciò perché si è ritenuto «indispensabile affidare il minore al servizio sociale per inserirlo subito in una comunità fuori dalla Calabria»; e perché, in un caso analogo, «pressante è l’esigenza di allontanare i minori dal contesto familiare permeato da dinamiche malavitose». In proposito, non si è sentita alcuna vibrante protesta da parte di Maurizio Gasparri, eppure siamo in presenza della più delicata, delicatissima, forma di «ingerenza» dello Stato nella vita privata dei cittadini. Qui, lo Stato «paternalista» decide di intervenire, attraverso un giudice, nella sfera più profonda delle relazioni interpersonali e del vincolo affettivo primario. Quello genitore-figlio. Cosa ci sarebbe di più «invasivo» e «illiberale» secondo i neofiti lettori di Alexis de Tocqueville e John Stuart Mill? (Non mi riferisco, evidentemente, ai liberali veri, come Piero Ostellino o come i radicali, che su questi temi hanno le carte in regola).
Certo, nel caso delle sentenze del Tribunale dei minori di Reggio Calabria, la tensione non è più tra un diritto soggettivo e un interesse collettivo, bensì tra due fondamentali diritti soggettivi. Ma proprio questo dice quanto sia arduo un bilanciamento tra quelle due esigenze; e rivela limpidamente il cuore di quel conflitto etico e giuridico che sottende alle cosiddette «scelte tragiche». Una contraddizione per certi versi insolubile tra due diritti ugualmente sacrosanti e ugualmente degni di tutela. Il diritto alla protezione della inviolabilità e intangibilità (ma anche inconoscibilità) del vincolo familiare e, allo stesso tempo, il diritto del minore a uno sviluppo psicologico, culturale e sociale sottratto a un destino che oggi appare come fatalmente criminale.

L’Unità 09.09.12