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«Ma se non si rilancia l'occupazione i populismi avranno gioco facile», di Giuseppe Sarcina

I pregiudizi, i luoghi comuni che riaffiorano in Europa (Paesi del Nord contro quelli del Sud, i nuovi arrivati dell’Est contro i fondatori e così via) «possono essere riassorbiti dai governi». Ma «se non si mette la disoccupazione al primo posto, il populismo guadagnerà sempre più spazio». Peter Diamond, 72 anni, nato a New York, ha vinto il premio Nobel per l’economia nel 2010 per i suoi studi sul mercato del lavoro. È professore al Mit di Boston. Invitato al seminario Ambrosetti di Cernobbio per parlare di pensioni e flessibilità, Diamond accetta di commentare il tema sollevato da Mario Monti: attenzione l’Europa è pericolosamente solcata da «fenomeni di rigetto».
Qual è la radice della nuova ondata di euroscetticismo? Gli effetti della crisi economica? L’incomunicabilità della politica?
«Non ho dubbi che il problema numero uno si chiami disoccupazione. Lo sappiamo tutti: le percentuali di senza lavoro sono spaventose, specie tra i giovani, perché in alcuni casi arrivano fino a un incredibile 50% e specie in Spagna, Grecia, Portogallo e Italia. Le cifre, però, non dicono tutto. In Europa si sta vivendo in un clima di scoraggiamento, di depressione psicologica prima ancora che economica».
Depressione con manifestazioni piuttosto aggressive, visto che in Paesi come Olanda, Finlandia e Germania sono spuntati partiti politici che chiedono il voto riesumando luoghi comuni di quarta categoria: «i greci sono pigri», «gli spagnoli spendaccioni», «gli italiani inaffidabili» e così via.
«Sì ma i partiti di governo e le istituzioni comunitarie sarebbero nelle condizioni di riassorbire queste spinte. Ora il problema centrale è che l’Unione Europea deve essere in grado di preservare e, se è il caso, incentivare la mobilità dei lavoratori da un Paese all’altro. Negli Stati Uniti i cittadini si spostano senza ostacoli in cerca di un impiego. Nello stesso tempo voi europei dovreste abbandonare la strategia adottata quando è scoppiata la crisi del debito. Il caso della Grecia è esemplare. Non si aiuta un Paese gettandolo sul lastrico e nella disperazione. Che aiuto è?».
Conosce la risposta: gli investitori internazionali, e non solo la Germania, non sono più disposti a finanziare un debito abnorme e non rimborsabile.
«D’accordo, ma dobbiamo distinguere. Non è tutta l’Europa che sta danzando sulla crisi del debito pubblico, ma solo alcuni Paesi, tra i quali l’Italia. Penso che se vogliamo uscire da questa situazione non ci sia che l’arma fiscale, il fiscal gun. Voglio dire occorrono investimenti pubblici di tipo classico, cioè le infrastrutture, o più inediti, come l’innovazione. È chiaro che Grecia, Italia, Spagna e Portogallo devono seguire una politica di rigore. Ma non può essere solo di tagli, altrimenti il peso del debito continuerà a salire a fronte di una ricchezza in diminuzione. Bisogna trovare un punto di equilibrio diverso da quello attuale. Non contesto il rigore finanziario. Il problema è quanto deve essere ampio. Mi pare che il piano anti-spread di Mario Draghi (acquisto dei titoli di Stato dei Paesi in difficoltà, ndr) possa essere visto come un’inversione di tendenza. È quella la direzione giusta».
Servirebbero anche le riforme, no?
«Certo. Due su tutte: mercato del lavoro e pensioni. Sul piano europeo è necessario un coordinamento tra i diversi sistemi, che non devono essere per forza uguali. Poi, certo, alcuni Paesi avrebbero bisogno di correzioni incisive. Se facciamo l’esempio dell’Italia osservo che ci sono ancora spazi di miglioramento sulla previdenza. Mentre sul mercato del lavoro il governo Monti si è mosso nella giusta direzione e non lo dico perché sono un buon amico di Elsa Fornero».

Corriere della Sera 10.9.12

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Europa solidale con giovani e poveri per evitare il pericolo populista
di Maurizio Ferrera

Qualche anno fa, agli albori della grande crisi, la Commissione europea organizzò un seminario a porte chiuse sulla dimensione sociale e la legittimità democratica dell’Ue. Vennero illustrati alcuni sondaggi che mostravano un’allarmante crescita dell’insicurezza economica e del disagio sociale dei cittadini e, quel che è peggio, una perdita generalizzata di fiducia sulla capacità dell’Ue di fornire soluzioni concrete. Segmenti importanti delle opinioni pubbliche nazionali anzi attribuivano a Bruxelles la responsabilità della crisi già iniziata. Nel mezzo della discussione, un esponente di primo piano della Commissione prese la parola e disse: conosciamo bene questi dati, siamo noi che finanziamo i sondaggi. Ma l’Ue sta facendo le cose giuste, «sono i cittadini che hanno torto».
Questo episodio la dice lunga sulla scarsa sensibilità (ma forse si tratta di una impreparazione culturale) delle tecnocrazie europee a misurarsi con il tema del consenso. I risultati sono sotto gli occhi di tutti: la crisi dell’euro si è ormai trasformata in una crisi di legittimità dell’Unione Europea. Populismi di destra, massimalismi di sinistra, difficoltà crescenti dei partiti di governo a mantenere la rotta europea, sostegno popolare nei confronti della Ue ai minimi storici: l’ondata non ha investito solo la «viziosa» Grecia, ma anche la «virtuosa» Olanda ed è pronta a colpire nelle prime elezioni utili molti altri Paesi, compreso il nostro.
I politici nazionali hanno anch’essi giocato un ruolo di primo piano nell’attizzare il fuoco populista. Per anni hanno scaricato il biasimo per le riforme impopolari (pensioni, mercato del lavoro, liberalizzazioni) su Bruxelles e Francoforte. Quante volte abbiamo sentito dire: dobbiamo farlo, ce lo chiede l’Europa? Per un po’ il gioco è riuscito, ha effettivamente attutito l’opposizione di elettorati recalcitranti al cambiamento. Ma al prezzo di erodere, riforma dopo riforma, il sostegno verso un’Unione presentata sempre più come un «cane da guardia», quasi una maniaca del rigore per il rigore. Sfortunatamente, a causa di un complesso di ragioni non tutte europee, i vantaggi delle riforme già fatte tardano ad arrivare, ma il «cane da guardia» Ue continua a chiedere sacrifici ai «viziosi» e ora vorrebbe anche costringere i «virtuosi» a pagare di più. Come stupirci se in queste condizioni il mercato politico ha aperto nuovi spazi alla propaganda antieuropea, a Sud come a Nord? Se la tendenza continua, rischiano di venir meno le stesse condizioni di possibilità politico-sociale del progetto di integrazione.
Che a Cernobbio Monti e Van Rompuy abbiamo riconosciuto il problema e la necessità di reagire è, finalmente, un segnale positivo, un primo atto di etica della responsabilità (politica) esercitato a favore dell’Ue in quanto tale. L’importante è che il sassolino lanciato produca una svolta non solo sincera e condivisa da tutti i leader, ma anche concreta nelle sue proposte d’azione. Il messaggio da elaborare e comunicare non è quello «contro» i populismi, ma «per» una Ue più amica e sensibile ai bisogni dei cittadini.
Opportunità per i giovani, lotta alla povertà, nuovi investimenti in un «sociale» che porti insieme più inclusione e più crescita (istruzione, ricerca, servizi): queste le tematiche su cui insistere e formulare proposte puntuali. Moltissimi spunti sono già sui tavoli di Commissione, Parlamento e persino Bce. Pensiamo alla Youth Guarantee, ossia l’obbligo da parte di ogni governo di offrire formazione, lavoro o tirocini a tutti i giovani che finiscono la scuola. Oppure all’idea di vincolare i Paesi a dotarsi di uno schema di reddito minimo di inserimento, entro un quadro di regole definite a Bruxelles. Si potrebbe anche considerare la proposta di un vero e proprio Social Investment Pact: incentivi e penalità per Paesi che non rispettino obiettivi comuni in termini di povertà relativa, rendimento scolastico, politiche di conciliazione e di parità e così via. Difendere l’euro e far ripartire la crescita restano, beninteso, obiettivi imprescindibili. Ma il loro perseguimento non preclude certo l’impegno su fronti che hanno una visibilità e un impatto più diretto sulla vita quotidiana degli europei. L’iniziativa di Monti avrà successo nella misura in cui riuscirà a far emergere una Ue più impegnata a proteggere i più deboli, tramite un programma accattivante sul piano simbolico e davvero convincente sul piano pratico.
PS. Anche su questo terreno, per essere credibili bisogna fare i compiti a casa. L’Italia ha un tasso di povertà (soprattutto fra i minori) molto elevato e il Programma nazionale di riforma 2012 non contiene nessuna misura seria per rispettare i target Ue. Sarebbe un vero peccato se il governo Monti non lasciasse in eredità un Piano per l’inclusione sociale degno del nome e articolato in base alle indicazioni europee, come hanno già fatto ventuno Paesi membri su ventisette.

Il Corriere della Sera 10.09.12