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"Perché la legge è urgente", di Antonio Ingroia

Sappiamo che nel testo di legge ci sono disposizioni che necessitano di miglioramenti e che residuano importanti perplessità su alcune scelte. È legittimo chiedersi, ad esempio, quale sia l’impatto dell’estensione della punibilità del concusso nel caso della concussione per induzione. Insomma, non tutto è ottimale e tutto è perfettibile. Ma la sensazione è che i lavori parlamentari su questo terreno siano entrati, da mesi ormai, in una fase di stallo, dove prevalgono i veti incrociati che certamente non fanno bene. Non fanno bene alla materia da disciplinare che necessita di una normativa nuova, organica ed efficace. E non fanno bene soprattutto alla politica stessa, la prima a dover essere interessata a una rapida soluzione al problema, anche superando le resistenze al suo interno da parte di chi cerca di mantenere a tutti i costi le più ampie zone di impunità per quella corruzione sistemica che sta strangolando la nostra democrazia.
Il punto è proprio questo. Questa corruzione sta strangolando, innanzitutto, la nostra economia. Non solo per i costi diretti per la comunità che comporta ogni forma di corruzione, ma anche per i suoi costi indiretti. In fondo, è proprio la diffusa corruzione dei pubblici funzionari, percepita come un costo d’impresa supplementare e permanente, al pari del peso delle imposizioni del racket mafioso, che scoraggia gli investitori stranieri, ed impedisce la crescita della nostra economia. Sicché, nel momento in cui strangola la nostra economia e deprime i cittadini, la corruzione finisce per strangolare anche la nostra democrazia. Perché la fiducia dei cittadini nelle istituzioni democratiche va sempre più deperendo e l’istinto di ribellione cresce.
È questa la prima ragione che dovrebbe far comprendere ai settori più consapevoli del nostro ceto politico l’urgenza e la necessità di un intervento legislativo forte nella lotta alla corruzione. Tutti sanno che la credibilità della classe politica ha raggiunto negli ultimi anni la punta più bassa della storia della nostra Repubblica agli occhi dei propri elettori. E si sa pure che questo effetto dipende certamente dalla crisi finanziaria che ha esasperato la sfiducia del cittadino medio nel proprio futuro. Ma a questa crisi finanziaria non è affatto estraneo l’impatto del fenomeno corruttivo che ormai in Italia ha assunto una dimensione endemica. Il diffondersi della cultura della irresponsabilità, penale, politica ed etico-morale, ha avuto un peso rilevante. L’etica della responsabilità si è definitivamente dissolta.
Se si vuole recuperare un circuito di fiducia democratica, se si vuole salvare l’Italia, occorre allora uno spirito «patriottico». Uno spirito patriottico che tolga di mezzo gli interessi di parte e i tatticismi pre-elettorali. Perché tutti rischiano di perdere. Agli occhi della gente non sono sufficienti dichiarazioni di intenti e affermazioni di principio. I cittadini esigono fatti e provvedimenti concreti. Sotto questo profilo, una legge anticorruzione, purché efficace, può costituire per il Parlamento un’occasione storica e, nel contempo, l’ultima spiaggia. L’occasione di iniziare un percorso inverso rispetto a quello finora tracciato. Un’inversione di senso di marcia verso la cultura della responsabilità. Se si considera che questo Parlamento è lo stesso che, sotto il passato governo, ha approvato tante leggi ad personam e di privilegio, e che ha messo ulteriori tasselli a supporto della cultura dell’impunità, la sfida va raccolta e diventa una priorità assoluta. Importante quanto la riforma elettorale. Come lo è ogni provvedimento che dimostri una nuova eticità della politica. Solo questo può riavvicinare i cittadini alla politica di cui hanno visto troppo a lungo il «lato b», la parte peggiore.
Si tratta dunque di un’occasione storica. Occasione storica perché costituirebbe il primo mattone della costruzione di un nuovo itinerario, per fare crescere la cultura istituzionale della responsabilità e la fiducia dei cittadini. L’ultima spiaggia per riacquistare credibilità agli occhi dei propri elettori che tornerebbero a partecipare con maggiore convinzione alla politica. Ma anche l’ultima spiaggia per conquistare maggiore fiducia dagli investitori e così contribuire alla crescita della nostra economia. Non c’è alternativa e bisogna fare in fretta.
L’Unità 10.09.12
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Le tangenti e gli investimenti stranieri come una «tassa» del 20 per cento
Gli effetti del processo civile lento: meno credito e aziende in sofferenza
di Dino Martirano
L’Italia non schioda dalla bassa classifica. Secondo il rapporto «Doing Business 2012» siamo ancora al 158° posto, su 183 economie esaminate, per quanto riguarda il tempo necessario alla giustizia civile per risolvere una controversia commerciale tra due imprese: in Italia, per concludere un processo e ottenere una sentenza definitiva, sono necessari 1.210 giorni, a fronte dei 331 impiegati in Francia e i 394 in Germania. In linea generale, «la durata media dei procedimenti in primo e secondo grado supera di due o tre volte quella degli altri Paesi dell’Unione Europea». Grecia compresa.
È questo il quadro di riferimento da cui parte il filo del ragionamento del ministro Paola Severino su «Giustizia e crescita economica». Ma prima di affondare il bisturi nel corpaccione malato del processo civile, l’analisi del Guardasigilli affronta l’emergenza corruzione che tanti investitori stranieri allontana dall’Italia e tante difficoltà provoca alla libera concorrenza tra le imprese. Nella percezione della corruzione (Trasparency international), infatti, siamo ultimi in Europa. Davanti solo alla Grecia.
E tanto per far comprendere le dimensioni del fenomeno, il ministro cita tre dati impressionanti: con una lotta efficace alla corruzione, il reddito potrebbe essere superiore del 2-4% (Banca mondiale); nelle regioni in cui la corruzione è più bassa, il settore delle imprese cresce fino al 3% annuo in più; la corruzione in Italia corrisponde a una «tassa» del 20% sugli investimenti stranieri. Ma c’è anche un «effetto domino» della corruzione che inquina tutti i pozzi dell’economia e del commercio: «La corruzione infatti altera il flusso del denaro in entrata (reato presupposto per creare i fondi) ed in uscita (il “nero” porta a spesa “illecita”) generando una sorta di effetto domino».
Va da sé, insiste il ministro, che la nuova legge anticorruzione non è più rinviabile: per imporre una efficace disciplina di trasparenza nella Pubblica amministrazione e per rendere «effettive e credibili» le sanzioni comprese quelle nuove, previste dalla legge ora all’esame del Senato, contro la corruzione tra privati e contro il traffico di influenze illecite (il lobbismo fuori dalle regole).
Eppure, lo snodo di collegamento tra giustizia ed economia passa sempre e comunque dalla manutenzione ordinaria e straordinaria del processo civile. Perché una «giustizia affidabile promuove la concorrenza, favorisce lo sviluppo dei sistemi finanziari, riduce il costo del recupero dei crediti, fornisce maggiore tutela ai prestatori di fondi». Per comprendere quanto conti un processo civile che funziona, il ministro ricorda che nelle province nelle quali il processo civile è più lento, le banche chiudono con più vigore anche i rubinetti del credito alle imprese: «A parità di altre condizioni, un aumento del carico di 10 casi per 1000 abitanti genera una riduzione del rapporto tra prestiti e Pil del 1,5%».
In altre parole, le statistiche dimostrano che «nei distretti di Corte d’Appello più “inefficienti” le famiglie sono penalizzate sul mercato del credito». Ma una amministrazione pigra e inefficiente del processo civile «influenza anche la quota di ricchezza che le famiglie detengono sotto forma “statica” (contante e depositi) rispetto a quella detenuta in strumenti finanziari “dinamici” (azioni e obbligazioni)». Inoltre, una giustizia civile lenta «incrementa il ricorso delle imprese al debito commerciale (dilazioni di pagamento)» ed è associata anche a una minore natalità delle imprese e soprattutto a una loro minore dimensione media: «Una riduzione della durata delle procedure civili del 50% accrescerebbe del 20% le dimensioni medie delle imprese manifatturiere».
Tirando il filo di questa analisi, il ministro della Giustizia Severino propone la seguente diagnosi: i tribunali civili sono intasati per eccesso di litigiosità (domanda di giustizia) e per un’organizzazione inefficiente degli uffici (offerta di giustizia). Sul primo fronte, quello della eccessiva domanda, le priorità sono la riforma degli ordinamenti professionali (quella dell’avvocatura è in sede legislativa alla Camera) e il filtro per un accesso più regolato alla giustizia (già realizzato per quanto riguarda l’appello nel civile).
Sul secondo fronte, quello dell’offerta, in agenda ci sono la riorganizzazione degli uffici giudiziari (da attuare nei prossimi 12 mesi in base alla delega varata dal governo Berlusconi), l’informatizzazione degli uffici giudiziari (che procede assai a rilento), la specializzazione dei giudici (varati i tribunali delle imprese mentre manca ancora quello della famiglia). Rimane, infine, lo smaltimento dell’arretrato che però, in termini di possibilità di azzeramento, assomiglia tanto al debito pubblico accumulato dallo Stato.
Il Corriere della Sera 10.09.12