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"Salvate la geografia che cambia il sapere", di Franco Farinelli

Lettera aperta al ministro. La globalizzazione impone per la prima volta nella storia dell’umanità di fare i conti con la Terra così come davvero essa è: da qui l’urgenza di pensare nuovi modelli per scendere a patti con il mondo.
Ministro ancora uno sforzo: «Geography is better than divinity», e non vi è alcun bisogno di tradurre. Si legge così nella prefazione alla Cosmographia di Peter Heylin, apparsa a Londra nel 1649 dunque due anni prima del Leviatano di Thomas Hobbes, il libro che fonda il moderno concetto di Stato. E testo, quello di Heylin, di cui ancora si parla nella aule universitarie anglosassoni, le stesse dove i colleghi ascoltano tra l’incredulo ed il divertito le attuali vicende del nostro sistema scolastico, incapaci di credere davvero che da noi ci si ostini a rischiare di dilapidare fino in fondo la nostra straordinaria capacità di manipolazione simbolica, accumulata in millenni di pratica culturale. Anche se semplici «valutazioni personali», come ha spiegato a Giovanni Reale sul Messaggero, le sue osservazioni sulla necessità di revisione dei programmi d’insegnamento di religione e geografia sono assolutamente condivisibili, e davvero urgenti. Si tratta di «stare al passo con il mondo», come ha detto nel corso della cerimonia di Inaugurazione dell’Anno Scolastico. E visitando le nostre scuole lei si è reso conto che un gran numero di alunni sono, almeno per origine, portatori di una cultura differente dalla nostra, perché nati altrove o da genitori nati altrove. Sicché gli scolari apprendono l’uno dall’altro, piuttosto che dall’insegnante, la grande lezione delle diversità di cui il mondo si compone. Molto più delicato per non dire cruciale è però appunto un altro aspetto, che fin qui nessuno ha ritenuto di dover sottolineare ma sul quale le sue parole in qualche maniera spingono ad esercitare la riflessione: dal punto di vista della funzione geografia e religione sono, su piani diversi, sistemi di credenze cui tocca il ruolo fondamentale, cioè originario, nella domesticazione del mondo, nella messa a punto del nostro patto cognitivo ed esistenziale con la realtà. I geografi come me davvero ringraziano. Wittgenstein confessò di ritenere vero tutto quello che è scritto nei manuali di geografia, poiché supponeva che i fatti di cui essi parlano sono stati confermati centinaia e centinaia di volte. Naturalmente, continuava il filosofo, di tale conferma è impossibile per chiunque avere prova, perciò non ci resta che «un’immagine del mondo», che però funziona da substrato di tutto il nostro cercare e di tutte le nostre asserzioni. Non si potrebbe dire meglio, ma mentre l’idea di cambiare l’ora di religione ha suscitato molte critiche, quella di metter mano all’ora di geografia non ha suscitato nessuna reazione. Vale la pena di ricordare che prima dell’invenzione della filosofia, cioè prima di Platone, tutti coloro che pensavano erano geografi: i presocratici, pensatori, come scriveva Giorgio Colli, di cui non sappiamo quasi nulla ma cui dobbiamo quasi tutto, perché furono proprio essi a mettere a punto i modelli con cui l’umanità occidentale fu in grado di entrare in un rapporto costruttivo con la faccia della Terra senza farsi troppo male, e senza fargliene. Oppure si pensi a Tolomeo, il più grande geografo dell’antichità. Ci si illude di non essere più tolemaici soltanto perché non crediamo più che la Terra stia proprio in mezzo all’universo, come in astronomia Tolomeo insegnava. In realtà siamo ancora oggi, senza saperlo, profondamente tolemaici e professiamo la nostra inconsapevole fede ogni volta che guardiamo una mappa, perché fu proprio Tolomeo, due secoli dopo Cristo, a ridurre per primo il mondo ad uno spazio propriamente detto, ad un insieme di punti definiti da un paio di coordinate matematiche calcolate attraverso misure astronomiche. E prima ancora fu proprio Tolomeo, vietando il globo, a fondare i principi epistemologici e strutturali della modernità, quelli che valgono ancora per noi. Che ve ne fate di un modello troppo fedele della realtà? Così egli si chiede. Il globo è scomodo da usare, scrive, perché bisogna continuamente girargli intorno, oppure bisogna continuamente farlo scorrere con la mano. Nel primo caso il soggetto è condannato a muoversi come chi, privo di mappa, si aggiri all’interno di un labirinto. Nel secondo il tatto collabora con la vista nel procedimento conoscitivo. All’opposto, se l’unico modello del mondo diventa la mappa, come Tolomeo spinge ad accettare, il soggetto non ha bisogno di spostarsi perché non ha più bisogno di cercare il centro, potendo riconoscerlo immediatamente a colpo d’occhio. Fu insomma proprio Tolomeo, vietando il globo, a stabilire in via definitiva che il soggetto restasse immobile, e che la conoscenza fosse la funzione di una doppia, connessa stabilità: quella del soggetto e quella dell’oggetto, ambedue risultanti dalla natura fissa ed autocentrata dell’immagine cartografica del mondo. Senza il cui primato lo stesso Stato territoriale centralizzato moderno, il Leviatano cui all’inizio ci si richiamava, mai sarebbe potuto sorgere ed affermarsi. Spiegava l’insegnante Pasolini, e si può ancora leggerlo nelle sue Lettere luterane, che «le fonti educative più immediate sono mute, materiali, oggettuali, inerti, puramente presenti. Eppure ti parlano». Sembra proprio che si stia riferendo alla carte geografiche che silenziosamente ma continuamente hanno parlato e parlano, dai muri della classe, a generazioni di bambini. E spenti ormai anche gli ultimi echi delle recenti celebrazioni dell’unità d’Italia possiamo finalmente confessare che l’Italia è un’espressione geografica, come Metternich sosteneva: esattamente come tutti gli altri centonovantadue Stati che attualmente si spartiscono la superficie terrestre, nel senso che il grande e unico programma della modernità altro non è stato che l’assunzione del modello cartografico come principale modello per la costruzione della realtà. Ma come si chiede la nuova antropologia statunitense: per Hegel la nottola di Minerva, cioè la filosofia, spiccava il volo al crepuscolo. Ma dov’è il crepuscolo se la Terra gira? Per chi e quanti esso vale? In altri termini la globalizzazione impone per la prima volta nella storia dell’umanità di fare i conti con la Terra così come davvero essa è: appunto come un globo, perché per la prima volta l’economia mondiale funziona simultaneamente come un’unica formazione. Ma nessuno per il momento riesce a pensare il globo, perché fin qui la strategia è stata quella di ridurlo ad una infinita serie di mappe. Oggi non basta più. Di qui, da tale urgenza di nuovi modelli per pensare quello che in realtà si è sempre saputo, il prepotente ritorno della geografia, il vecchio archetipico sapere cui si ricorre ogni volta che si tratta di scendere a patti con il mondo su una nuova base, com’è oggi il caso. Proprio perché il mondo è un globo che non si presta a nessun rapido colpo d’occhio non le chiediamo, Ministro, tutto e subito: non chiediamo che i prossimi programmi di geografia siano impostati, come pure sarebbe necessario, sul capovolgimento di quel che oggi si insegna, sull’idea che la faccia della Terra sia la rappresentazione della mappa, e non viceversa. L’unica preghiera è di porre senza paura mano ai programmi, come ci risulta lei abbia già iniziato a fare, e di non scherzare con i fanti, con l’esercito degli insegnanti. Quanto ai santi si possono pure lasciar stare.

L’Unità 30.09.12